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martedì, giugno 06, 2006

 

L’Italia è una repubblica del Vaticano

di Carlo Talenti
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Nel n. 2 di Micromega 2006, pp. 151-173, Carlo Augusto Viano ci propone un’attenta riflessione su un tema che negli ultimi tempi si è imposto contro l’ invadenza della chiesa cattolica nello spazio pubblico della politica e del dibattito giornalistico: la libertà dalla religione.
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La spregiudicatezza del Vaticano nel lucrare a man bassa i privilegi che le disinvolte professioni di fede cattolica del governo Berlusconi hanno svenduto a spese degli italiani forse ha provocato lo sdegno di alcuni cattolici seri, ma evidentemente si tratta pur sempre di una minoranza. Invece per la maggior parte dei nostri concittadini, che si considerano cattolici perché frequentano distrattamente le messe domenicali, battezzano i figli e celebrano matrimoni e funerali in chiesa, si tratta di una faccenda che non li riguarda. Se le istituzioni cattoliche – esentate dal pagamento dell’ICI e favorite da finanziamenti privilegiati - sono in grado di offrire servizi turistici e scolastici a condizioni convenienti, tanto meglio. Molti, troppi italiani non si scandalizzano quando si dice loro che i privilegi della chiesa cattolica sono pagati con le tasse di tutti i cittadini: anche di quelli che nella chiesa non si riconoscono. La “laicità dello stato”, per i più, è “roba da intellettuali”; e poi alle furbizie dei preti gli italiani sono abituati da secoli e ci scherzano sopra. Ma intanto, difendere il diritto di praticare i culti di una propria tradizione religiosa è diventato anche in Italia una richiesta impegnativa da quando il monopolio della morale legittima esercitato di fatto dalla chiesa cattolica ha dovuto confrontarsi con la presenza di flussi migratori depositari di altre religioni. In questo processo di esplicitazione dei contenuti della libertà di pensiero garantita dalla nostra costituzione ha acquistato rilievo anche il diritto degli atei, degli scettici e dei miscredenti in genere di regolare la propria moralità al di fuori di ogni tradizione religiosa.
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A dire il vero il monopolio della morale pubblica e privata rivendicato dalla chiesa cattolica era stato già da tempo ridimensionato in Europa da quando le scienze moderne – empiriche e analitico-sperimentali – avevano sottratto alla tradizione biblica ogni credibilità della sua rappresentazione del mondo e dell’uomo. Ma la ridefinizione del rapporto tra potere religioso e potere politico era stata regolata variamente nei diversi stati europei, secondo la forza conservata dal Vaticano nei confronti degli stati regolatori della convivenza tra cattolici, luterani, calvinisti, anglicani e miscredenti. E in alcune regioni d’Europa, i cattolici erano diventati minoranza. In questo processo di ridistribuzione dei poteri, lo stato italiano si è ritrovato il più svantaggiato, prima come sede centrale della controriforma cattolica, poi come controparte di un Concordato che, pur lasciando cadere la pretesa di fare del cattolicesimo una “religione di stato”, ne conferma una posizione privilegiata nei confronti di ogni altra agenzia etico-religiosa.
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Con la Costituzione repubblicana del 1948 che recepiva, attraverso l’art. 7, le disposizioni del Concordato del 1929 firmato dal Vaticano con il regime fascista, la posizione dei miscredenti risultava implicitamente garantita come morale praticata dai gruppi comunisti e socialisti. Di fatto, più che un esercizio di libertà individuale, veniva tollerata in quanto appartenente a forze riconosciute in Parlamento come principali interlocutrici della Democrazia Cristiana. Certo qualche liberale laico sopravvissuto nelle intolleranze della guerra fredda poteva beneficiare di questa transazione tra miscredenti e cattolici appellandosi alle ragioni di Croce che spiegava “perché non possiamo non dirci cristiani”. Ma chi è stato adulto nella seconda metà del secolo scorso sa che la richiesta di esenzione dei propri figli dall’ora di religione creava spesso condizioni di emarginazione da parte delle autorità ecclesiastiche e dei compagni di classe. Tanto più se la richiesta veniva da genitori di modesta collocazione sociale.
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Ora che la chiesa cattolica deve confrontarsi con le religioni praticate da vari gruppi di immigrati, la sua pretesa di supremazia si è risvegliata soprattutto nei confronti del mondo islamico, con effetti per altro intimidatori nei confronti dei miscredenti, perché essa ha buon gioco a considerare interlocutori privilegiati del pluralismo etico-religioso le altre religioni - e soprattutto quelle monoteistiche – che ritrova solidali contro chi si pone al di fuori di ogni etica religiosa. Contro quest’ultima posizione è poi diventata minacciosa e sommamente intollerante grazie alla crociata anticomunista lanciata da Berlusconi. La libertà di pensiero è stata una conquista delle costituzioni liberali, ma in Italia, più che altrove, essa è diventata un privilegio concesso ai ceti benestanti che occupano posizioni intermedie di potere, perché la loro eventuale miscredenza non impensierisce i grandi poteri che curano l’educazione delle masse popolari con la telecrazia. Del resto, quando si sono immaginati al governo, i liberali hanno considerato un compito d’onore quello di garantire a tutte le credenze religiose il diritto di praticare pubblicamente i propri riti e di sostenere pubblicamente le proprie credenze, sapendo che in questa pratica essi avrebbero potuto anche rivendicare il diritto alla propria miscredenza. In breve, come governanti, i liberali si sono sempre considerati arbitri super partes. Vale a dire: proprio in quanto atei e miscredenti, cioè indifferenti a tutte le fedi religiose – che essi giudicavano frutto di una visione arcaica e prescientifica del mondo – i liberali hanno preso atto di essere i soli che non avevano in mente guerre di religione, e quindi i soli che potevano esercitare la forza legittima dello stato per tenere a freno i contendenti delle varie fedi.
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La loro speranza di fondo era che uno stato leggero ma fermo e vigilante contro le sopraffazioni delle singole religioni o delle singole ideologie, potesse contare sull’equilibrio spontaneo che la competizione tra credenze avrebbe finito per realizzare. Ma Viano è il primo a riconoscere che la concorrenza tra le agenzie di idee non può funzionare come quella tra agenzie economiche, perché queste ultime sono regolate dalla domanda e dall’offerta di beni che soddisfano bisogni prima o poi apprezzabili da tutti i contendenti; invece, quasi tutte le agenzie di idee pretendono di imporre gerarchie di valore che disprezzano quelle proposte dalle agenzie concorrenti, e quindi obbligano i loro seguaci a una militanza bellicosa. In realtà, le agenzie di idee sono sempre impegnate a estirpare qualche male; quelle economiche sono sempre impegnate a proporre qualche livello superiore di benessere, che non esclude i precedenti. E qui diventa evidente come anche lo stato più liberale sia costretto ad attrezzarsi per prevenire, contenere e, se necessario, reprimere le pretese di sopraffazione di una qualche religione o ideologia totalitaria. Ma così facendo, non può più considerarsi arbitro super partes, perché proprio le agenzie a vocazione totalitaria che esso garantisce sul proprio territorio lo considerano uno dei nemici da abbattere. Perciò lo stato liberale è costretto a farsi non solo militante, ma anche combattente e magari persecutore. Lo stato liberale è un arbitro che regola la comunicazione sociale, sapendo di privilegiare quelle parti che non pretendono programmaticamente di instaurare un potere totalitario. A questa conclusione occorre aggiungere la considerazione che anche le agenzie economiche, per ammissione degli stessi economisti liberisti più attenti, non garantiscono affatto “una competizione salutare” che toglierebbe dal mercato quelle meno degne di fiducia perché finanziariamente inconsistenti e produttivamente meno qualificate, ma promuovono una competizione selvaggia, che si serve di tutte le astuzie, di tutti gli inganni e di tutte le sopraffazioni che giovano al successo.
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La libertà di pensiero e i diritti civili – se proprio si vuole trovare un collegamento con lo sviluppo del capitalismo – sono ormai effetti non intenzionali di progetti miranti non solo ad un profitto proporzionale al rischio, ma miranti ad un profitto comunque accumulato. Al sorgere del capitalismo la libertà di pensiero e i diritti civili avevano potuto presentarsi come rivendicazioni contro i privilegi feudali, a favore dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e, a questo scopo, avevano messo in atto la finzione del contratto sociale tra pari. Ma, poiché la parità sottintesa era soltanto quella tra le nuove professioni della borghesia, che poi sarebbero passate alla storia come professioni liberali, la libertà di pensiero e i diritti civili si sono affermati come privilegi che emarginavano ed emarginano di fatto l’analfabetismo, l’ignoranza e l’indifferenza dei meno abbienti e dei lavoratori dipendenti a orario e stipendio fisso e risicato. Quale libertà di pensiero e quali diritti civili potrebbe mai esercitare effettivamente chi, lavorando per la pura sopravvivenza, non ha tempo di pensare e non ha spazio per garantire la propria vita privata e quella delle persone con le quali convive?
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Nelle società fondate su una costituzione instaurata da classi e ceti sociali in competizione la garanzia formale dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge giova di fatto soltanto a coloro che hanno i mezzi – tempo, conoscenze e denaro – per affrontare contenziosi che rinviano a dibattiti in tribunale. Da questa presa d’atto sono ripartite le ideologie socialiste e da essa ripartono ormai gli stessi liberali “di sinistra” per correggere le distorsioni più vistose e dissipative del capitalismo senza frontiere. Una volta l’ha scritto da qualche parte anche Viano: la banalità del male è fondata sulla banalità del bene. E quest’ultima è madre dell’ignoranza e dell’indifferenza verso tutte le invenzioni del pensiero e verso la loro diffusione: due vacuità che banalizzano la scrittura, la stampa, il computer e tutte le scienze e le tecnologie moderne, riportandole nell’alveo sempre più povero e miserabile delle tradizioni religiose. Due vacuità che operano non solo tra gli analfabeti emarginati dalla miseria, m anche tra gli alfabetizzati che si vantano di non leggere. Intanto, la forbice tra i saperi specialistici e i saperi comuni diventa sempre più ampia e incolmabile; e le pratiche di divulgazione o meglio - come sostiene correttamente Toraldo di Francia - le pratiche di diffusione dei saperi specialistici rimangono privilegio dei professionisti della scrittura che assumono il compito di tradurre i linguaggi matematici e formali, nei quali si sviluppano le scienze, in resoconti ingegnosi costruiti con il linguaggio verbale. Così essi diventando interlocutori privilegiati dei gestori dell’industria culturale.
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In ogni caso il potere delle agenzie gestisce e soffoca quello degli individui e, quando questi verificano i loro margini di libertà, si accorgono che questa quasi mai travalica il potere dei ruoli loro affidati. Si dice, certo, che una personalità matura è quella che sa gestire i conflitti di ruolo e trovare un proprio stile nell’esercitarli, ma il problema rimane sempre quello del tempo disponibile e degli strumenti necessari per valutare il peso dei ruoli pubblici e di quelli privati. Tanto più che, anche il cosiddetto “tempo libero”, nelle società industriali avanzate, è totalmente organizzato dall’industria turistica e da quella del divertimento, la cui sezione nobile è quella della visita ai musei e alle opere d’arte, unita all’ascolto della musica classica e di quella folcloristica d’avanguardia e alla frequentazione degli spettacoli teatrali e filmici. Dove si colloca dunque lo spazio e il tempo per un’auto- e un’etero-educazione politica che metta i singoli cittadini in condizioni di riconoscere le sopraffazioni delle agenzie religiose che superano i limiti della tolleranza e della convivenza civile?
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La prima risposta democratica che viene in mente è sempre quella di riformare il sistema educativo, ma ogni volta essa è vanificata da chi detiene il potere politico e mediatico e non vuole che i figli degli operai e in genere degli emarginati abbiano accesso agli stessi pacchetti di sapere che giovano ai figli dei professionisti. Non era dunque sbagliato il progetto di Marx che intendeva preparare i meno abbienti alla rivoluzione sotto la guida di alcuni gruppi intellettuali che ne costituissero la mente pensante. Purtroppo l’esecuzione si è poi rivelata peggiore del male che intendeva estirpare; sia nel combattere l’inerzia e l’indifferenza dei destinatari del servizio educativo, sia per spezzare la resistenza dei ceti privilegiati, sia per controllare la competizione tra gli intellettuali che si proponevano come responsabili della nuova educazione del popolo. Ma anche lasciando da parte l’esperimento della pedagogia comunista, col tempo abbiamo dovuto riconoscere che offrire pari opportunità ai giovani emarginati e a quelli privilegiati non colma la forbice; perché ai primi le opportunità non giovano come a coloro che vivono entro un contesto familiare colto. Non solo, ma la cultura dei ceti colti religiosi è organizzata in funzione di finalità ben diverse da quella dei ceti colti laici; perciò, quando si arriva a dover decidere quali contenuti dei saperi scientifici moderni si devono includere a spese delle esclusioni di alcuni saperi retorici antichi, la disputa tra i riformatori passa sulla testa dei destinatari della riforma e mette capo a compromessi privi di sostanziale forza innovativa. Se poi, per disporre di un sostegno che aiuti a sradicare i pregiudizi dei conservatori, si ricorre alla partecipazione delle famiglie nel dibattito sulla formazione dei curricoli scolastici, la confusione da incompetenza e da presunzione di diritti diventa paralizzante. Anche Viano riconosce che proprio in nome della libertà gli individui stabiliscono rapporti conflittuali e che questi non trovano un giusto equilibrio per via spontanea; anzitutto perché le tradizioni religiose ci hanno abituato a contrapporre non ambiti diversi di libertà, ma libertà vere di fronte a verità illusorie. “Le teorie della libertà vera – scrive pensando a John Stuart Mill maestro della dottrina liberale – danno un’interpretazione irenica della libertà, come di un dominio tenuto insieme da una gerarchia di attività, e celano conflitti e tensioni che possono sorgere tra le libertà, se queste sono intese in modo plurale…. Mill credeva che le libertà individuali potessero entrare in conflitto, ma anche limitarsi reciprocamente, in modo da dare a ognuno la possibilità di godere di tutta la libertà compatibile con le libertà altrui” (p. 152). Purtroppo questo esito non si verifica, e allora diventa inevitabile far ricorso ad agenzie, cioè ad attori sociali collettivi che inquadrano e organizzano i comportamenti individuali. Ma il problema si riproduce tra le varie agenzie e qui si dovrebbe riconoscere: 1) che tutti i saperi sono poteri, ma di fatto non tutti i saperi hanno acquisito eguale potere (indipendentemente dalla loro validità teorica); 2) che i grandi poteri – religioso, bellico (o militare), economico (di scambio, di risparmio e di consumo), politico (giuridico-amministrativo), scientifico (analitico-empirico e sperimentale), e mediatico - si sono affermati in tempi diversi e hanno instaurato equilibri diversi in ambiti territoriali favoriti o sfavoriti da risorse diverse. Così l’equilibrio mondiale delle forze risulta sempre più sbilanciato, perché anche esigui vantaggi storici possono produrre rapidamente forme di dominio pericolose, e viceversa grandi forme di dominio possono essere frantumate da eventi imprevedibili di dimensione apparentemente modesta.
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Per restringere il campo della discussione del caso Italia, Viano presenta due modelli di tolleranza: quello “collaudato in Inghilterra a partire dal Seicento, nel quale le Chiese non possono esercitare coazioni neppure sui propri membri” (p. 157); e quello esperito dall’Olanda, a partire dallo stesso periodo, nei confronti di una pluralità di confessioni religiose, che costituisce una forma di tolleranza autoritaria e protettiva “che metteva i cittadini al riparo da aggressioni religiose, oltre che dallo spettacolo poco edificante di pastori e ministri che litigavano fra loro e incitavano i propri seguaci ad aggredire i seguaci di confessioni diverse”. E questo fu un esperimento che finì male, “con i magistrati di Amsterdam uccisi”; esso lasciò tuttavia in eredità il problema della instaurazione di un potere (sufficientemente) neutrale rispetto alle credenze religiose.
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Episodi di invadenza sempre più spregiudicata del Vaticano nell’ambito della politica italiana, e corrispondenti fenomeni di autocensura da parte dei giornalisti e dei rappresentanti dei partiti rendono sempre più pressante nel nostro sistema politico-sociale l’introduzione di una qualche forma di tolleranza protettiva e autoritaria all’olandese.
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Carlo Talenti
ctalenti@libero.it
tiene corsi di argomento sociologico e linguistico presso la Facoltà di Scienze Politiche di Torino. Curatore di la Sezione Pedagogia del Grande Dizionario Enciclopedico UTET. Ha pubblicato Adelchi Baratono (Torino, 1957), Educazione linguistica, doppia lettura di un bilancio (Torino 1977) e articoli su argomenti riguardanti le scienze umane e “questione laica”.

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