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sabato, febbraio 18, 2006

 

Se il crocifisso nelle aule diventa simbolo di laicità

di Francesco Merlo
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Con una sentenza che avrebbe entusiasmato Gorgia da Lentini, il Consiglio di Stato ha alambiccato che il crocifisso è simbolo di laicità, è cifra dello Stato laico, e che, dunque, non come oggetto di culto, ma proprio per educare ai valori della laicità deve restare appeso alle pareti delle scuole. Ebbene, il Consiglio di Stato perdoni l’impertinenza, ma sentenziare che Cristo è laico equivale a stabilire che l’asino vola. L’eguaglianza tra “A” e “non A” è infatti una violazione del principio identitario che nessun disagio storico può giustificare. E’ vero che non era facile il compito degli illustri magistrati dell’Organo di appello della giustizia amministrativa. E chiunque nei loro panni sarebbe stato costretto a ricorrere a qualche artifizio per difendere l’identità italiana senza offendere la laicità dello Stato. Mai però avremmo potuto immaginare che il Consiglio di Stato avrebbe espresso questo epocale malessere del borgo natio che si sente assediato, confezionando una sentenza che appartiene all’improntitudine della sofistica e non alla nobiltà della giurisprudenza.
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Nella sussiegosa declamatoria asserzione che la croce è il simbolo dei “valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato”, c’è infatti la più sprovvedutamente autorevole celebrazione del paradosso dell’identità dei contrari. Neppure le parallele convergenze di Moro reggono il confronto. In politica infatti può ancora passare per tollerabile arguzia intellettuale l’idea che il bianco sia nero. Ma il Diritto non ammette il tartufismo, e nessun giudice può trasformare un simbolo religioso nel suo contrario. E’ come se la Cassazione stabilisse che a datare da oggi 16 febbraio 2006 il guelfo è ghibellino. O, per essere ancora più chiari, che il Milan è l’Inter: solo a Biscardi è ammessa la mescolanza del latte con l’aceto. Non si tratta qui di contestare la decisione di non rimuovere il crocifisso dal muro di una scuola media o di un tribunale, o di un qualsiasi ufficio pubblico. La materia è vitalmente controversa anche per chi, come noi, senza acrimonia, senza scuotere l’Olimpo, pacatamente e devotamente preferirebbe che le religioni non stessero sui muri ma nei cuori. Ed è ovvio che sarebbe questa la soluzione laica del problema.
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Ma in un’Italia che per mille ragioni non è completamente laica, e quindi per mille ragioni è graziosamente religiosa; in un’Italia moderata dal punto di vista laico e non fanatica dal punto di vista religioso, il problema va sdrammatizzato evitando che clericali e anticlericali si affrontino con l’oltranzismo normativista.
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Anche noi laici pensiamo che davvero il crocifisso è un simbolo inseparabile dai nostri pensieri e dai nostri più profondi sentimenti, che c’è un’identità tra noi e l’immagine di Cristo, che il crocifisso è il profilo antropologico dell’Occidente. Poco ci interessa di stabilire la verità storica del Cristo, mentre ci piace tutta l’iconografia cristiana, ci piacciono la sua barba e i suoi capelli, abbiamo introiettato i suoi occhi e le sue mani.
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Ciascuno di noi, non importa se ateo o credente, è come una sindone: si porta dentro l’impronta fortemente marcata della faccia di Cristo. Ma anche alla maggioranza dei cattolici italiani piacciono i papi pacati. La religione italiana non è un randello ma un ramoscello, non coltiva sogni revanscisti alla Ruini. La religione in Italia è come il colore degli occhi, un dato naturale sul quale non ci si interroga, e con il quale si convive e si convive bene.
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Quindi anche sul crocifisso bisognerebbe agire con la civiltà cortese, e in certi casi staccare dal muro e in altri casi lasciare sul muro, perché a volte togliere offende più che mettere. Perciò alla fine proprio questa odierna sentenza del Consiglio di Stato, che sembra fatta apposta per irritare e stupidamente offendere i credenti di altre religioni, dimostra quanto sia ridicolo misurarsi con il crocifisso sul piano normativo. Dall’amplesso di lex e crux nascono sempre mostriciattoli ridicoli.
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E tuttavia altre sentenze verranno, altri pasticci ci aspettano. Siamo troppo abituati alla stagionalità della giustizia e al suo piegarsi ai venti ideologici per farci illusioni: la battaglia dei crocifissi è appena cominciata. Anche se è sicuro che, almeno nelle motivazioni, mai altri giudici riusciranno a eguagliare la bizzarria retorica di questi cinque magistrati del Consiglio di Stato che per lasciare Cristo sul muro di una scuola media di Abano Terme hanno sottratto Cristo a Cristo riducendolo a guardia di una identità territoriale.
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Rileggetela questa sentenza del Consiglio di Stato: somiglia a un articolo del “Foglio” di Giuliano Ferrara, ma senza il ghigno sardonico e sfacciato dell’intelligenza e della provocazione: un articolo di quelli non riusciti. Con giochi di parola e con i barocchismi concettuali infatti non si emanano sentenze. Si sparano sentenze.
(La Repubblica del 16 febbraio 2006, pag. 1)
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Francesco Merlo

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