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domenica, febbraio 24, 2008

 

Il Ministro di Giustizia Mastella, miracolato da San Pio, guarisce da una grave sindrome da “solletico”

Il 19 settembre 2006 l’On.le Turco Maurizio ha presentato all’Illustrissimo Ministro di Giustizia On.le Clemente Mastella l’interpellanza n. 2/00130 (che si riporta sotto) con la quale gli ha chiesto di rendere conto delle gravi irregolarità perpetrate dai giudici dell’Aquila nel processo penale a carico del magistrato di Camerino Luigi Tosti, condannato per essersi rifiutato di tenere le udienze perché gli è stato vietato di esporre la menorà ebraica nelle aule di udienza dove gli veniva invece imposto il crocifisso cattolico.
L’Illustrissimo Ministro Mastella è stato “solleticato” a rispondere con richiesta del 19.4.2007 ma non ha risposto, sembra perché impegnato per ragioni di ufficio in un volo aereo “familiare” a Monza, a spese dei sudditi della Colonia Pontificia.
L’Illustrissimo Ministro è stata allora nuovamente “solleticato” il 10.5.2007, ma non ha trovato il tempo per rispondere, forse perché impegnato nella stesura di articoli di stampa sul famoso quotidiano “Il Campanile”.
L’On.le Turco lo ha pertanto nuovamente “solleticato” il 5.7.2007: il Ministro forse era però impegnato dal Notaio per la stipula di atti di compravendita.
Si è dunque ricorsi al quarto “solletico”, il 25.7.2007. Ahimé, tempo di ferie: il Ministro era impegnato a rilassarsi dalle fatiche gravose sulla nave prestigiosa dell’amico Diego, sfollando dai porti siculi le infime bagnarole degli indigeni locali.
L’On.le Turco Maurizio -una vera e propria mosca cavallina!!!- ha allora “solleticato” il Ministro Ceppalonico con atto del 10.9.2007: anche questo 5° “solletico” non è andato a buon fine, forse perché il Ministro era impegnato a tenere alto il nome della Colonia Pontificia in America, al Columbus day.
Il 1° ottobre 2007 veniva depositato il 6° “solletico”: il Ministro cominciava ad accusare crisi di riso, indotte dall’impertinenza dell’On.le Turco.
Quest’ultimo, non pago di aver importunato il Ministro ceppalonico, duramente impegnato a mantenere la promessa di “velocizzare” i processi secondo i ritmi della Ferrari -e il volo a Monza era appunto finalizzato ad acquisire i segreti della Casa di Maranello, per applicarli alla Giustizia italiana- osava “solleticare” l’On.le Mastella col 7° “solletico”, il 22.10.2007. Niente da fare: il Ministro era impegnato a saldare i conti del distributore di benzina di Cappalonia coi soldi del Campanile.
L’On. Turco “solleticava” Mastella ancora il 12.11.2007. Niente da fare, gli si rispondeva: ritenta, forse sarai più fortunato!
Si arrivava allora al 9° “solletico”, il 3.12.2007: il Ministro era però impegnato ad inventare una qualche altra accusa per far condannare il dr. Luigi Tosti dal CSM, all’udienza del 7.12.2007, visto che le altre non stavano né in piedi, né sedute né sdraiate.
Il 4.1.2008, l’On. Turco, dando dimostrazione di insolenza inaudita -anzi, ai limiti del codice penale- “solleticava” il Ministro Ceppalonico col decimo “solletico”: il Ministro, dando dimostrazione di cristiana tolleranza, non reagiva all’insolenza del radicale, anche perché era gravosamente impegnato a far deflagrare il suo governo, in vista di un futuro salto della quaglia.
Il 28 gennaio 2008 veniva depositato l’undicesimo “solletico”: il ministro ceppalonico non poteva però più decidere perché, con alto senso della famiglia cristiana, aveva preferito dimettersi per stare vicino alla consorte, inquisita da una Procura campana. Avrebbe voluto ardentemente rispondere -faceva sapere- ma non poteva farlo perché “magistrati cattivi glielo avevano impedito”.
Il 13 febbraio 2008 inizia la nuova “favola”: il dodicesimo “solletico”, infatti, coglie mani e piedi del nuovo Ministro di Giustizia Scotti dell’ectoplasmatico Governo Prodi, al quale rivolgiamo l’accorato appello di “resistere, resistere, resistere” ai fastidiosi pruriti della mosca cavallina On.le Maurizio Turco e, dunque, di non rispondere. D’altro canto, quando non si sa “che membro sessuale maschile rispondere” (non abbiamo detto: “che cazzo”), è meglio strafottersene dei propri obblighi istituzionali.
Viva il Vaticano e viva la sua Colonia Pontificia!!!
Questo il testo dell’interpellanza, con relativi “solletichi”.

Legislatura 15
ATTO CAMERA Sindacato Ispettivo
INTERPELLANZA : 2/00130
presentata da TURCO MAURIZIO il 19/09/2006 nella seduta numero 37
INTERPELLANZA 2/00130 CAMERA
Stampato il 24/02/2008
Stato iter : IN CORSO
Ministero destinatario :
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA
Attuale Delegato a rispondere :
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA , data delega 19/09/2006

Fasi dell'iter e data di svolgimento:

SOLLECITO IL 19/04/2007
SOLLECITO IL 10/05/2007
SOLLECITO IL 05/07/2007
SOLLECITO IL 25/07/2007
SOLLECITO IL 10/09/2007
SOLLECITO IL 01/10/2007
SOLLECITO IL 22/10/2007
SOLLECITO IL 12/11/2007
SOLLECITO IL 03/12/2007
SOLLECITO IL 04/01/2008
SOLLECITO IL 28/01/2008
SOLLECITO IL 13/02/2008
Termini di classificazione dell'atto secondo lo standard Teseo :
CONCETTUALE :
CHIESA CATTOLICA, EBRAISMO, EGUAGLIANZA, MAGISTRATI, RELIGIONE
GEO-POLITICO :
CAMERINO, MACERATA - Prov, MARCHE, L'AQUILA, L'AQUILA - Prov, ABRUZZI

TESTO ATTO
Atto Camera
Interpellanza 2-00130
presentata da
MAURIZIO TURCO
martedì 19 settembre 2006 nella seduta n.037
Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro della giustizia, per sapere - premesso che:
- la Corte di Cassazione penale, con sentenza n. 4273 del 1o marzo 2000 (imp. Montagnana), ha espressamente affermato che tutte le norme fasciste che sanciscono l'obbligatorietà dell'esposizione del simbolo religioso del crocifisso - ivi inclusa la circolare del Ministro Rocco, Div. III, del 29 maggio 1926, n. 2134/1867 - debbono ritenersi tacitamente abrogate ex articolo 15 disp. prel. codice civile, perché assolutamente incompatibili col principio di laicità dello Stato delineato dalla Carta costituzionale, che si compendia nell'obbligo di tutte le Pubbliche Amministrazioni - e, a maggior ragione, dell'Amministrazione della Giustizia - di essere ed apparire imparziali, nonché del rispetto del diritto all'eguaglianza dei cittadini, senza distinzione di religione, che non tollera dunque privilegi a favore della fede cattolica e discriminazioni ai danni degli atei, degli agnostici e dei credenti in altre religioni;
- il magistrato ordinario del tribunale di Camerino Luigi Tosti ha vanamente e ripetutamente chiesto che venissero rimossi dalle aule giudiziarie di tutti gli uffici giudiziari i crocifissi in ottemperanza alla pronuncia della Cassazione, o che, in alternativa, venissero esposti tutti gli altri simboli e, in particolare, la menorah della religione ebraica;
- l'articolo 9 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dall'Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848, consacra il diritto di qualsiasi persona a credere o non credere e il successivo articolo 14 impone agli Stati contraenti l'obbligo di non operare discriminazioni fondate, tra l'altro, sulla religione;
- l'articolo 25 della Costituzione dispone che nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per la legge;
- l'articolo 7-ter dell'Ord. Giud. (regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12) dispone che «l'assegnazione degli affari alle singole sezioni ed ai singoli collegi e giudici è effettuata, rispettivamente, dal dirigente dell'ufficio e dal presidente della sezione o dal magistrato che la dirige, secondo criteri oggettivi e predeterminati, indicati in via generale dal CSM ed approvati contestualmente alle tabelle degli uffici e con la medesima procedura»;
- l'articolo 49 della circolare del Consiglio Superiore della magistratura per la formazione delle tabelle relative al biennio 2004-2005 dispone che «il dirigente dell'Ufficio, il presidente della sezione, ovvero il magistrato che la dirige, nella materia civile ed in quella penale, devono assegnare gli affari alle sezioni, ai collegi ed ai giudici in base a criteri oggettivi e predeterminati, allo scopo di assicurare la realizzazione del principio di precostituzione del giudice, riferibile anche al giudice persona fisica. Non sono ammissibili criteri equitativi o che dipendano nella loro attuazione dalla discrezionalità del dirigente»;
- il punto 23.3 della circolare n. P-2513/2003 del Consiglio Superiore della Magistratura ribadisce la direttiva costante ed ancorata all'incompatibilità sancita dall'articolo 34 del codice di procedura penale, che «ai magistrati destinati alla sezione GIP-GUP non devono essere assegnate funzioni di
giudice del dibattimento, salvi i casi di oggettiva impossibilità di provvedere altrimenti»;
- le vigenti tabelle del Tribunale dell'Aquila prevedono (pag. 13) che il collegio per il dibattimento sia formato soltanto dai seguenti magistrati: dr. Antonio Villani, presidente; dr. Romano Gargarella, giudice; dr. Mario Montanaro, giudice; dr. Buzzelli, giudice supplente; dr. De Filippis, giudice supplente; dr. Ferrari, giudice supplente; dr. Grimaldi, giudice supplente;
- infine, le tabelle del Tribunale dell'Aquila prevedono (pag. 4) che «il modesto numero dei procedimenti... consente che i giudici incaricati delle funzioni di GIP e GUP svolgano, all'occorrenza, anche funzioni di giudice del dibattimento monocratico per i procedimenti a citazione diretta...»:

1°) per quali validi motivi il ministero di giustizia si ostini ad ignorare la pronuncia della Cassazione e, in ogni caso, a calpestare il principio supremo di laicità dello Stato e i diritti di eguaglianza religiosa di tutti coloro che non si identificano nel simbolo dei cattolici, imponendo la presenza del crocifisso nelle aule giudiziarie e vietando, secondo l'interpellante, in modo apertamente discriminatorio, l'esposizione di tutti gli altri simboli positivi e/o negativi;
2°) per quali validi motivi - che, secondo l'interrogante, non siano quelli di discriminazione razziale, odio e disprezzo degli ebrei e della religione ebraica - il Ministero interrogato ha negato al dott. Tosti Luigi di esporre a fianco del crocifisso la menorah, usufruendo così degli stessi diritti religiosi e della stessa dignità che l'Amministrazione fascista italiana accordò e che quella repubblicana seguita ad accordare ai cattolici;
3°) per quali motivi l'esposizione di un solo simbolo religioso - attuato dalla dittatura fascista quando la religione cattolica era considerata «religione di Stato» - e la contestuale negazione dell'esposizione di tutti gli altri simboli possano ritenersi compatibili con i diritti alla libertà religiosa e alla non discriminazione religiosa che la predetta Convenzione accorda a qualsiasi singola persona;
4°) per quali validi motivi il GUP dott. Carlo Tatozzi, che non risulta assegnato in alcun modo, in base alle tabelle vigenti per il Tribunale dell'Aquila, al collegio penale e che presenta altresì motivi di incompatibilità a causa delle funzioni di GUP ricoperte, sia stato chiamato a presiedere il Collegio penale che ha giudicato Luigi Tosti in data 18 novembre 2005, e per quali altri validi motivi il dott. Mario Montanaro, che doveva tabellarmente far parte di quel collegio, sia stato escluso e sostituito dalla dott.ssa Elvira Buzzelli;
5°) se per queste irregolarità, segnalate dal dott. Luigi Tosti con esposto del 26 febbraio 2006 inoltrato al Ministro di giustizia, al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione ed al Consiglio Superiore della Magistratura, siano stati adottati provvedimenti e/o iniziative disciplinari, così come espressamente previsto dalle Circolari del CSM.
(2-00130)«Turco».

venerdì, febbraio 22, 2008

 

Criminale crocifisso

Cronaca di una condanna annunciata
a cura dell’imputato Luigi Tosti (*)

(*) Il giudice Luigi Tosti chiede allo Stato Italiano che vengano rimossi dalle aule giudiziarie i simboli religiosi per rispettare il principio supremo di laicità affermato dalla Costituzione Italiana e dalla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo.

Per gli amici che seguono la mia vicenda giudiziaria -e in particolare quelli francesi, spagnoli, portoghesi, belgi, olandesi, tedeschi, australiani, canadesi, statunitensi, inglesi, vietnamiti, israeliani, namibiani, congolesi, biafrani e, dulcis in fundo, anche per i sudditi dell’italica Colonia del Vaticano- comunico il resoconto dell’udienza che si è tenuta, ieri 21 febbraio 2008, dinanzi al Tribunale penale dell’Aquila, allestito in scrupolosa osservanza dello stile dei Tribunali della Santa Inquisizione, cioè con quello stesso criminale crocifisso che è oggi appeso sopra i giudici della Repubblica Pontificia Italiana e che, a suo tempo, troneggiò sopra i criminali giudici della Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana.
Ieri 21 febbraio 2008, mi sono presentato in udienza con una telecamera perché intendevo chiedere, nella mia qualità di imputato, l'autorizzazione a riprendere lo svolgimento dell'udienza penale, per far vedere poi agli amici che mi seguono “come” viene celebrato il processo a mio carico. Chiedere la videoregistrazione dell’udienza a mio carico è peraltro un diritto che mi viene garantito dalla legge.
Ebbene, prima ancora che i giudici entrassero nell'aula per iniziare l'udienza, un capitato dei Carabinieri della Procura della Repubblica -che mi permetto di definire, pubblicamente, come un vero gentiluomo ed una persona squisita, sperando di non arrecargli un qualche pregiudizio- si è presentato in udienza facendomi presente che doveva asportare e custodire (cioè sequestrare) la telecamera, per “ordine superiore”. Gli ho subito fatto presente che la telecamera era la mia e che mi serviva per fare le riprese: io, infatti, intendevo chiedere al Tribunale di essere autorizzato ad effettuare le riprese, non appena i Giudici fossero entrati in aula: se mi fosse stata sequestrata, come avrei potuto esercitare il mio diritto?
Mentre si stava discutendo su questa questione, sono entrati in aula i tre giudici e il Presidente, ancor prima che venisse chiamato il mio processo, ha ribadito al Capitano dei carabinieri l’ordine di sequestrare la telecamera perché la ripresa del processo “non era stata autorizzata”.
Sia io che i miei avvocati abbiamo ovviamente obiettato che il processo non era stato chiamato e che la domanda di effettuare riprese non era stata ancora formulata: dunque, non esisteva alcun provvedimento di rigetto della domanda.
Il Presidente replicava affermando, con una notevole dose di arroganza, che la domanda era rigettata. Gli si è allora ribadito che il processo non era ancora stato chiamato e che la domanda non era dunque stata fatta e che io intendevo farla. Senza neppure ritirarsi in camera di consiglio e senza neppure interpellare gli altri due giudici, il Presidente dichiarava, allora, che la richiesta di riprese audiovisive era respinta e che gli altri due giudici la pensavano come lui.
Piccola nota personale. Quando si tratta di processare i “mostri” Olindo e Rosa Romano, i “giudici” autorizzano centinaia di televisioni a riprendere il processo, anche contro la volontà degli imputati; quando la richiesta, però, proviene da un imputato che, come me, non ha nulla da vergognarsi, i giudici impediscono, senza fornire una briciola di motivazione, la ripresa dell'udienza: e questo per impedire che i cittadini si rendano conto che i giudici stanno processando non il vero “mostro”, cioè il Ministro di Giustizia, ma la vittima del razzismo della repubblica Pontifica Italiana.
Delirante è la circostanza che i giudici possano decidere se autorizzare o no le riprese, senza fornire giustificazioni plausibili del perché essi adottino pesi e misure diverse a seconda dei casi: questo è puro arbitrio, e l’arbitrio è la negazione assoluta della garanzia di imparzialità del giudice.
Archiviata questa questione, il Presidente del Tribunale aquilano ha esordito chiedendo come mai io fossi lì, in aula, e come mai fossero presenti i miei difensori, visto che nella precedente udienza mi ero allontanato ed avevo revocato la nomina ai miei difensori, perché non era stata accolta la mia richiesta di celebrare il processo senza il criminale crocifisso dei Tribunali dell’Inquisizione, che ancora oggi troneggia sopra le loro teste, o con l’apposizione dei miei simboli a fianco del crocifisso. Per quel che ho capito, il Presidente ha manifestato una sorta di rammarico per il fatto che io fossi lì a difendermi e che ci fossero anche i miei difensori di fiducia, presagendo quello che poi sarebbe avvenuto: e cioè che mi sarei difeso, mettendo alla berlina le Istituzioni razziste italiane e la Chiesa Cattolica.
I miei legali hanno respinto queste astruse contestazioni del Presidente, rappresentandogli che io avevo per iscritto revocato la nomina del difensore di ufficio il quale aveva pubblicamente dichiarato, anche sulla stampa, che, essendo cattolico, intendeva rifiutarsi per obiezione di coscienza di difendere un giudice che aveva chiesto di togliere i crocifissi dalle aule di giustizia.
A questo punto ho chiesto la parola per far presente tre questioni: la prima era che il Tribunale aveva omesso di pronunciarsi alla precedente udienza sull'eccezione di nullità dell’udienza preliminare; la seconda era che il Tribunale aveva respinto la mia richiesta di rimuovere i crocifissi perché “non davano fastidio” ma, guarda caso, si era dimenticato di pronunciarsi sulla richiesta di esporre a fianco del crocifisso i miei simboli che, guarda caso, anch’essi “non davano fastidio”; la terza era un invito ai tre giudici ad astenersi dal processo se erano stati battezzati ed appartenevano ancora alla religione cattolica. Il processo a mio carico, infatti, implicava che essi dovessero preliminarmente decidere se la presenza dei crocifissi nelle aule di giustizia della Colonia del Vaticano fosse o meno legittima: i giudici cattolici, dunque, avevano un interesse personale nel mio processo perché, se mi avessero assolto, avrebbero pregiudicato in modo irreversibile il “privilegio” che viene tuttora accordato ai giudici cattolici dalla Repubblica Pontificia, cioè quello di avere sopra le loro auguste teste di cattolici soltanto il LORO simbolo.
Ebbene, il Presidente, senza ritirarsi in camera di consiglio e senza minimamente interpellare gli altri due giudici, ha respinto tutte e tre le questioni, affermando che nessuno intendeva astenersi e che, poi, il Tribunale non poteva autorizzare l'esposizione dei miei simboli, perché questo poteva essere fatto solo dal Ministro: motivazione, quest'ultima, tanto vera quanto irrilevante. In effetti, io non avevo invitato i giudici ad autorizzarmi ad esporre i simboli, bensì a chiedere al Ministro siffatta autorizzazione, provvedendo poi a sollevare un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale solo se la stessa fosse stata respinta.
Uno dei miei avvocati, a questo punto, rappresentava al Presidente del Tribunale che il giudice dell'udienza preliminare aveva affermato che, se un legittimo impedimento dell'imputato a presenziare all'udienza si realizza dopo che egli è comparso, l'udienza può legittimamente proseguire perché l'imputato è rappresentato dal suo difensore. Questa affermazione -proseguiva il mio avvocato- contrastava col codice di procedura penale che disponeva in senso contrario, tant’è che, se egli fosse ad esempio caduto in coma, il tribunale avrebbe dovuto rinviare l'udienza.
Il presidente, allora, interrompeva il mio avvocato con questa obiezione, allucinante: “ma questa è un’ipotesi, che non si è realizzata!!” Al che il mio legale replicava: “ma potrebbe realizzarsi e, allora, il tribunale dovrebbe decidere se rinviare rinviare o meno il processo”.
Di fronte a questa elementare obiezione, il Presidente se ne usciva con questa risposta che faceva imbestialire il mio avvocato fino al punto da indurlo a chiederne la ricusazione: “Avvocato, vuol dire che quando lei andrà in coma, noi decideremo!!!”
Volavano parole pesanti: il tutto non ripreso dalla mia telecamera, accortamente fatta sequestrare in via preventiva.
Il Presidente dichiarava di non volersi astenere ed invitava pertanto il mio avvocato a formalizzare la richiesta di ricusazione nei suoi confronti. Io invitavo il mio avvocato a non farlo, perché intendevo portare a termine il processo a mio carico (era già la quarta volta che ero costretto ad andare all'Aquila).
Passati alla fase dell'ammissione delle prove, il Pubblico ministero, guarda caso, rinunciava al suo teste di accusa, cioè il Presidente del Tribunale di Camerino Aldo Alocchi, e questo per evitargli le domande imbarazzanti alle quali sarebbe stato sottoposto dai miei difensori. Dal momento, però, che anche io ne avevo chiesto l'audizione, la sua richiesta di “soprassedere” all'audizione di questo teste non sortiva gli effetti sperati.
Iniziava, dunque, l'interrogatorio del Presidente Alocchi.
Al dr. Alocchi i miei avvocati ponevano le domande che io avevo scrupolosamente scritto, allo scopo precipuo di porre in evidenza quanto fosse stato contraddittorio e criminale il comportamento posto in essere nei miei confronti: io, infatti, ho subito una palese e criminale discriminazione religiosa da parte del Ministro di Giustizia e dei miei superiori i quali, non solo non hanno rimosso i crocifissi nelle aule dove ero costretto a lavorare, ma mi hanno vietato di esporre i miei simboli. Io non sono né un prete né un frate che ha fatto la scelta volontaria di frequentare chiese e conventi, dove vengono esposti i crocifissi. Io sono un pubblico funzionario che non può essere costretto dallo Stato italiano a frequentare aule giudiziarie nelle quali vengono esposti quegli stessi criminali crocifissi che vennero esposti nelle criminali aule giudiziarie dei criminali Tribunali della Santa Inquisizione della criminale associazione denominata Chiesa Cattolica e fondata da Dio in persona.
Ebbene, gran parte delle domande formulate per il teste Alocchi sono state vietate dal Presidente del tribunale, su opposizione del P.M., senza nemmeno interpellare gli altri due giudici: e questo per togliere dall'imbarazzo il teste, che non avrebbe saputo a quale santo votarsi per fornire giustificazioni logiche o giuridiche del suo comportamento contraddittorio e discriminatorio.
Eguale sorte è poi capito al mio esame: dopo che io ho dichiarato, in pubblica udienza, che tra i motivi che mi spingevano a non tenere le udienze sotto il crocifisso vi era quello che non avrei mai tenuto le udienze sotto l'incombenza della svastica nazista e che, quindi e a maggior ragione, non intendevo tenerle sotto l'incombenza del vessillo della Chiesa Cattolica, cioè di quella che era stata ritenuta e che io avevo già definito in pubblica udienza, dinanzi al CSM, come la più grande associazione per delinquere e come la più grande banda di falsari che sia esistita sul Pianeta Terra, le domande successive venivano “stoppate” per evitare che io fornissi tutti i puntuali riscontri storici della criminalità della Chiesa Cattolica, citando le crociate, i tribunali dell'inquisizione etc.
Il P.M. ha iniziato ad interrompere continuamente il mio esame -cioè l'esame che mi permetteva di difendermi - e il Presidente del Tribunale ha accolto tutte le opposizione del P.M., senza interpellare gli altri due giudici. Si è innescato un violentissimo diverbio tra uno dei miei difensori e il P.M.: diverbio che, grazie all'oculata e solerte censura preventiva del Presidente del Tribunale dell'Aquila, gli italiani non potranno mai ammirare. Ad un certo punto il Presidente ha addirittura interrotto il mio esame, “spedendomi” al mio posto.
E' iniziata allora la discussione finale.
Il P.M. ha chiesto la mia condanna sulla base di questo ragionamento.
E’ irrilevante valutare se la motivazione del dr. Tosti di non tenere le udienze a causa della presenza del crocifisso sia o meno fondata, perché ciò che conta è che egli, di fatto, non ha tenuto le udienze e questo comportamento ha arrecato un disagio agli utenti che chiedevano giustizia. Se la presenza del crocifisso sia lecita o meno e se essa sia lesiva del principio supremo di laicità affermato dalla Costituzione e, inoltre, dei diritti inviolabili del Tosti e dei cittadini italiani alla libertà religiosa e all'eguaglianza, sono dunque questioni del tutto irrilevanti, ad avviso del P.M. aquilano.
Non una parola, però, il P.M. ha speso in merito alla circostanza che io ho comunque manifestato la piena disponibilità a tenere le udienze sotto l'incombenza del crocifisso, purché il Ministro mi autorizzasse ad esporre i miei simboli a fianco del crocifisso. E non si tratta di circostanza secondaria, perché essa al contrario evidenzia che la responsabilità del presunto “disagio degli utenti” -che mi si vuole appioppare- è semmai da imputare al Ministro di Giustizia, “razzista”, che mi ha impedito di esporre i miei simboli.
Se al P.M. aquilano stessero realmente a cuore gli interessi dei poveri cittadini italiani, egli avrebbe dovuto incriminare il Ministro di Giustizia che, con comportamento arrogante e razzista, mi ha vietato di godere della stessa dignità e degli stessi diritti che la Repubblica Pontificia Italiana accorda alla Superiore Razza Cattolica Italiana. Se fossi stato autorizzato ad esporre i miei simboli, io avrei seguitato a tenere le udienze: se questo non è stato fatto, ciò è dovuto al fatto che la Repubblica Pontificia Italiana è razzista.
Ma di questo il P.M. aquilano non ne ha tenuto conto, perché se ne avesse tenuto conto avrebbe dovuto incriminare il Ministro Cattolico: e questo, in una Colonia Pontificia, non si può fare.
Che le motivazioni del mio rifiuto siano poi irrilevanti, è un qualcosa di aberrante, che neppure una persona completamente digiuna di diritto potrebbe concepire.
Se un chirurgo si rifiuta di eseguire interventi chirurgici perché la Direzione sanitaria si rifiuta di togliere dalla sala operatoria un crocifisso radioattivo, che pregiudica la salute e la vita del chirurgo e dei pazienti, solo un imbecille patentato potrebbe affermare che le motivazioni addotte dal chirurgo siano assolutamente irrilevanti, perché quello che conta è soltanto il fatto che i pazienti hanno dovuto subire dei disagi perché, a causa del suo rifiuto, essi sono stati operati da altri chirurghi!!!!!!
Si tratta di un vero deliquio giuridico che, ovviamente, è stato accolto dal Tribunale dell'Aquila, che mi ha giustamente inflitto un'ulteriore condanna che, sommata alla precedente, porta ad un anno di reclusione ed un anno di interdizione dai pubblici uffici.
Il che, francamente, mi riempe di gioia e di orgoglio, perché ho così maturato i requisiti per candidarmi alle prossime elezioni politiche.
Sottolineo che questo processo è stato attivato su mie autodenunce e che, dunque, questa condanna non solo non mi scalfisce, ma anzi mi onora: altri quattro magistrati si sono uniti alla lista, già cospicua, dei magistrati che, a vario titolo, hanno condannato il mio comportamento, sia a livello penale che disciplinare.
Se a ciò si aggiunge che nella Repubblica Pontificia Italiana esiste un solo giudice -l’anonimo Luigi Tosti- che si rifiuta di calpestare la Costituzione Italiana e la Convenzione per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali, alla quale il Vaticano non ha potuto aderito perché contraria al suo regime liberticida, l’onore si trasforma in orgoglio: l’orgoglio di essere stato l’unico, in questa Colonia del Vaticano, che non a caso si colloca come fanalino di coda tra gli Stati membri della Comunità Europea, a lottare per questi valori.
Cari baciapile e cari sudditi del Vaticano, carissimi Veltroni, Berlusconi, Prodi, Fini, Bertinotti, Di Pietro, Santanghè, Storace, Mastella, Dini, Pecoraro, Ferrero e via dicendo, ci rivedremo a Strasburgo: cominciate, nel frattempo, ad inventarvi qualche trojata giuridica per convincere i Giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che imporre ad uno sporco ebreo il crocifisso, e vietargli di esporre la sua menorà, non è un atto discriminatorio.
Carissimi Napoletani, smettetevela di sbraitare per la monnezza che vi seppellisce: i vostri beneamati Politici e il Vostro augusto Pontefice hanno dovuto lottare per altre incombenze ben più pressanti e prioritarie, e cioè per preservare la presenza degli idoli del Dio biblico incarnato nelle aule scolastiche, in quelle dei tribunali e in quelle degli ospedali. Sono stati spesi milioni per comprare centinaia di migliaia di idoli da esporre negli uffici pubblici: gli idoli non sono mica monnezza!
Perché non cominciate ad esporre sulle strade pubbliche, a fianco della monnezza, i crocifissi? Non lo sapete che “Dio vede e provvede”?
Amen

Luigi Tosti, apostata ed eretico

Conferenza pubblica: Le radici Atee dell’Europa
a Jesi relatori: Giorello, Tosti, Martella, Montesi, Conti


JESI (Ancona) - “Le radici Atee dell’Europa - La costante anticristiana della democrazia in occidente” è il tema che verrà trattato nella conferenza ad ingresso libero Sabato 1 Marzo 2008 alle ore 17:30 a Jesi presso la Sala Maggiore del Palazzo della Signoria, piazza Colocci 2. La conferenza è patrocinata dal Comune di Jesi. Interverranno come relatori: Giulio Giorello, filosofo e saggista docente di Filosofia della Scienza presso l’Università degli Studi di Milano, Luigi Tosti, magistrato, il quale chiede allo Stato Italiano che vengano rimossi dalle aule giudiziarie i simboli religiosi per rispettare il principio supremo di laicità affermato dalla Costituzione Italiana e dalla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, Sergio Martella, psicologo e scrittore, Ennio Montesi, scrittore e fondatore di Axteismo, movimento internazionale di libero pensiero
http://nochiesa.blogspot.com e Valentina Conti, assessore alla cultura. “L’Italia è una colonia del Vaticano” commenta il giudice Tosti “è un dato di fatto e unico caso al mondo”. La forte e costante ingerenza del Vaticano nella politica, nella vita privata dei cittadini ha indotto molti intellettuali italiani a passare da una difesa passiva dei valori della civiltà, della libertà e della scienza ad una ormai necessaria denuncia della falsità e della pericolosità della fede cattolica. Dati alla mano. Pubblico e giornalisti sono invitati. www.comune.jesi.an.it

Nella foto il magistrato Luigi Tosti mostra ai giornalisti i simboli religiosi che aveva chiesto di affiancare al crocifisso nelle aule giudiziarie: la menorà ebraica, il logo dell’Uaar, una maschera africana e un Budda.



Interviste, conferenze e altro tel. 3393188116
Fonte:
http://nochiesa.blogspot.com
Diffusione: Axteismo Press l'Agenzia degli Axtei, Atei e Laici
http://nochiesa.blogspot.com

Richiedi gratis tuttala documentazione,
circa 50 maill, in formato digitale scrivendo a:

mercoledì, febbraio 13, 2008

 

Conferenza: Le radici Atee dell’Europa

Comunicato stampa - si invita alla pubblicazione e diffusione
Le radici Atee dell’Europa

Conferenza pubblica a Jesi relatori: Giorello, Tosti, Martella, Montesi, Conti


JESI (Ancona) - “Le radici Atee dell’Europa - La costante anticristiana della democrazia in occidente” è il tema che verrà trattato nella conferenza ad ingresso libero Sabato 1 Marzo 2008 alle ore 17:30 a Jesi presso la Sala Maggiore del Palazzo della Signoria, piazza Colocci 2. La conferenza è patrocinata dal Comune di Jesi. Interverranno come relatori: Giulio Giorello, filosofo e saggista docente di Filosofia della Scienza presso l’Università degli Studi di Milano, Luigi Tosti, magistrato, il quale chiede allo Stato Italiano che vengano rimossi dalle aule giudiziarie i simboli religiosi per rispettare il principio supremo di laicità affermato dalla Costituzione Italiana e dalla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, Sergio Martella, psicologo e scrittore, Ennio Montesi, scrittore e fondatore di Axteismo, movimento internazionale di libero pensiero e Valentina Conti, assessore alla cultura. “L’Italia è una colonia del Vaticano” commenta il giudice Tosti “è un dato di fatto e unico caso al mondo”. La forte e costante ingerenza del Vaticano nella politica, nella vita privata dei cittadini ha indotto molti intellettuali italiani a passare da una difesa passiva dei valori della civiltà, della libertà e della scienza ad una ormai necessaria denuncia della falsità e della pericolosità della fede cattolica. Dati alla mano. Pubblico e giornalisti sono invitati. www.comune.jesi.an.it
Pubblico e giornalisti sono invitati.

«Quando il cittadino è passivo è la democrazia che s’ammala».
Alexis Charles de Tocqueville


Interviste, conferenze e altro tel. 3393188116 - axteismo@yahoo.it
Fonte: http://nochiesa.blogspot.com
Diffusione: Axteismo Press l'Agenzia degli Axtei, Atei e Laici
http://nochiesa.blogspot.com

 

Crocifisso in Tribunale: Il giudice Luigi Tosti fa ricorso in Cassazione


Procedimento disciplinare n. 37/2007 R.G. Consiglio Superiore Magistratura

CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI
Ricorso ex art. 24 Decreto Legislativo 23.2.2006 n. 109
proposto dall’incolpato


Tosti Luigi, nato a Cingoli il 3.8.1948, res. a Rimini, Via Bastioni Orientali n. 38, il quale dichiara di nominare difensori di fiducia per il presente giudizio di cassazione -conferendo loro con procura in calce un autonomo potere di proposizione di autonomi ricorsi- gli Avvocati:
1. - PIERDOMINICI FABIO del foro di Camerino, Via Farnese n. 75, 62032 CAMERINO, tel. 0737 - 630126, di fiducia;
2. - VISCONTI DARIO del foro dell’Aquila, Via XX Settembre n. 19, 67100 L’AQUILA, tel. 0862 - 419442, di fiducia;
elettivamente domiciliandosi in Roma,
avverso
la sentenza della Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura n. 106/2007, pronunciata il 7.12.2007 e depositata il 13.12.2007, relativa al proc. disc. N. 37/2007 R.G., nonché contro tutte le ordinanze collegiali dibattimentali di rigetto delle questioni preliminari e delle istanze istruttorie.
PREMESSA
Circa 2.000 anni fa Fedro scriveva la famosa “favola del lupo e dell’agnello”, di cui si riporta qui appresso una traduzione letterale.
“Un lupo ed un agnello, spinti dalla sete, erano giunti allo stesso ruscello. Più in alto si fermò il lupo, molto più in basso si mise l’agnello. Allora quel furfante, spinto dalla sua sfrenata golosità, cercò un pretesto di litigio.
“Perché - disse - intorbidi l’acqua che sto bevendo?” Pieno di timore, l’agnello rispose: “Scusa, come posso fare ciò? Io bevo l’acqua che passa prima da te.”
E quello, sconfitto dall’evidenza del fatto, disse: “Sei mesi fa hai parlato male di me!”
E l’agnello ribatté: “Ma se ancora non ero nato!”
“Per Ercole, fu tuo padre, a parlar male di me”: disse il lupo. E subito gli saltò addosso e lo sbranò fino ad ucciderlo ingiustamente.
Questa favola è scritta per quegli uomini che opprimono gli innocenti con falsi pretesti.”
La narrazione di questa favola viene premessa perché, come ci si accinge a dimostrare, il kafkiano procedimento disciplinare che è stato intentato dal Ministro di Giustizia Clemente Mastella contro il magistrato Luigi Tosti -e il suo epilogo ancor più grottesco- dimostrano, di là del minimo dubbio, che vi è stata e vi è la prava volontà di condannare, per biechi motivi di ritorsione, una persona che si sa essere innocente, creando ad arte falsi e deliranti pretesti e facendo, dunque, un ’”uso persecutorio” (l’ex premier Berlusconi direbbe: “uso criminoso”) del potere disciplinare.
La proposizione di questo ricorso potrebbe suscitare, nei Giudici della Cassazione che se ne dovranno interessare, legittimi sospetti circa la pienezza della capacità mentali da parte del ricorrente dr. Tosti Luigi: solo un “minus habens”, infatti, potrebbe ostinarsi a reclamare “Giustizia”, dopo aver subito una “condanna” che è il frutto di una pervicace serie di accuse, FALSE e PRETESTUOSE, che sono state dolosamente congetturate allo scopo di infangare l’onore di una persona che si sa essere perfettamente INNOCENTE.
Per fugare questi ipotetici sospetti circa le facoltà mentali del ricorrente, è bene chiarire che questo ricorso viene proposto solo perché esso rappresenta la condicio sine qua non per la proposizione del futuro ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che il dr. Tosti dovrà attivare a causa della macroscopica violazione dei suoi diritti fondamentali di difesa e di libertà di opinione e di espressione, nonché per i danni all’onore ed all’immagine che scaturiscono da una sentenza del CSM che, TRAVISANDO DELIBERATAMENTE la VERITA’ dei FATTI e delle PAROLE, lo ha ritenuto responsabile di comportamenti FALSI ed INFAMANTI.
F A T T O e SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1°) Luigi Tosti è un cittadino italiano, occasionalmente magistrato, che, almeno stando alla Costituzione Italiana ed alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, “dovrebbe godere” del DIRITTO INVIOLABILE di NON ESSERE DISCRIMINATO a causa della “razza” o della “confessione religiosa” ma che, a causa della normativa “fascista” -tuttora condivisa dalla Repubblica Cattolica italiana- e a causa dei criminali precetti della Chiesa Cattolica Apostolica Romana (cioè di quella che a buon diritto e per pieni meriti storici è stata definita come la più grande associazione per delinquere e la più grande banda di falsari che la Storia del Pianeta ricordi) è stato e viene tuttora DISCRIMINATO dai Ministri di Giustizia a cagione del sua pretesa di esporre la menorà ebraica a fianco del crocifisso cattolico (si ricorda che è stata la Chiesa Cattolica -e non nazisti- ad imporre per prima agli ebrei i simboli distintivi (1215), a rinchiuderli nei ghetti (1555), a sterminarli, a imporre loro prediche coatte per convertirli, a cacciarli dalla città italiane confiscandone i beni, a rapirne i bambini battezzati di nascosto, ad istigarne l’odio razziale e a provocarne stermini con false e deliranti accuse di omicidi rituali e di “Deicidio” e ad infangarne l’onore con gli ingiuriosi epiteti di “perfidi ebrei”, di “peste dell'umanità” e di “branco di sporchi usurai e ruffiani, i quali ben meritavano la punizione divina che era loro riservata”. Si ricorda che sono stati i “cattolici” dell’Italia fascista ad emanare le criminali leggi razziali contro gli ebrei e che, infine, la shoà è il frutto della dittatura dei criminali Nazisti, anch’essi in massima parte cattolici).
2°) Orbene, nella sua qualità di magistrato il dr. Tosti Luigi ha chiesto al Ministro di Giustizia che venissero rimossi i crocifissi dalle aule di giustizia per non pregiudicare il suo obbligo COSTITUZIONALE di apparire “imparziale” nei confronti dei cittadini, nonché per non subire la lesione irreversibile dei suoi diritti di libertà religiosa e di eguaglianza, chiedendo in particolare il rispetto e l’applicazione della sentenza della Corte di Cassazione penale, IV Sezione, 1.3.2000 n. 4273 (imp. Montagnana) la quale aveva affermato che tutte le norme dell’epoca fascista sull’ostensione del crocifisso dovevano considerarsi tacitamente abrogate per incompatibilità col principio supremo di laicità della Costituzione Repubblicana, a mente del quale i pubblici funzionari e, a maggior ragione, i GIUDICI, dovevano non solo essere, ma anche APPARIRE imparziali, neutrali ed equidistanti nei confronti dei cittadini e, dunque, non potevano essere costretti dal Ministro di Giustizia ad identificarsi in simboli “partigiani”, cioè rappresentativi di una sola fede religiosa.
3°) Non avendo ottenuto risposta, il nostro giudice ebreo proponeva ricorso al TAR, chiedendo la rimozione dei crocifissi o, in subordine, l’esposizione della sua menorà ebraica (il giudizio “pende” dinanzi al Consiglio di Stato, dopo che il TAR delle Marche ha pilatescamente dichiarato il proprio difetto di giurisdizione).
4°) Essendo divenuta intollerabile la discriminazione religiosa, che veniva condivisa anche da anonimi criminali razzisti cattolici, il dr. Tosti inviava al Ministro di Giustizia una lettera-ultimatum del 3.5.2005 (cfr. documento n. 2 fascicolo di parte), con la quale reiterava la richiesta di rimuovere i crocifissi o, in alternativa, di autorizzarlo ad esporre la sua menorà ebraica, preannunciando che, in caso contrario, si sarebbe rifiutato di tenere le udienze a far data dal 9 maggio 2005.
5°) In questa missiva il dr. Tosti ribadiva, per l’ennesima volta, tutte le motivazioni principali di questo rifiuto e, cioè:
a. che egli aveva giurato fedeltà alla Costituzione e, pertanto, si rifiutava di calpestare l’obbligo, impostogli dall’art. 111 Costituzione, di essere e APPARIRE imparziale nell’esercizio delle sue funzioni: “i crocifissi erano simboli “partigiani”, che identificavano solo i cattolici”, sicché la loro presenza nelle aule evocava un messaggio simbolico inaccettabile, e cioè che la Giustizia veniva amministrata dai giudici, “non solo in nome del Popolo italiano, ma ANCHE in nome del Dio dei cattolici”;
b. che egli, poi, si rifiutava di subire la lesione del suo diritto primario di libertà religiosa (art. 19 Cost. ed art. 9 Conv. Dir. Uomo), dal momento che per radicato convincimento ideologico-religioso ripudiava qualsiasi forma di “idolatria” e, dunque, non tollerava che l’idolo del Dio biblico incarnato (tale è Gesù Cristo, secondo la dottrina ufficiale della Chiesa cattolica) gli venisse imposto dal Ministro di Giustizia -addirittura come “simbolo venerato e come solenne ammonimento di verità e giustizia”- nelle aule dove era costretto ad espletare le proprie funzioni, tanto più se si consideravano le gravissime implicazioni di criminalità che connotavano la plurimillenaria storia criminale della Chiesa Cattolica;
c. che egli, infine, lamentava la CRIMINALE lesione del suo diritto primario all’eguaglianza (art. 3 Cost, art. 14 Conv. Dir. Uomo), dal momento che l’Amministrazione Giudiziaria gli imponeva i crocifissi e, contestualmente, gli vietava, per abietti motivi di disprezzo razziale e religioso, di esporre i propri simboli, ponendo così in essere un comportamento di “discriminazione religiosa” che integrava il reato di cui all’art. 3 della L. 654/1975.
6°) Non avendo ottenuto alcuna risposta, dal 9 maggio 2005 il dr. Tosti iniziava a rifiutarsi di tenere le udienze per “libertà di coscienza”, ponendo così in essere un comportamento che la Corte di Cassazione penale, con la citata decisione n. 4273/2000, aveva ritenuto del tutto giustificato e, quindi, privo di rilevanza penale.
7°) Questo suo rifiuto determinava l’apertura di un procedimento penale per il reato di “omissione di atti di ufficio” e, poi, l’apertura di un parallelo procedimento disciplinare da parte del P.G. della Cassazione.
8°) Con decreto di giudizio immediato veniva fissata, per il 18.11.2005, l’udienza dibattimentale dinanzi al Tribunale dell’Aquila.
9°) Avuta cognizione di tale rinvio a giudizio, il dr. Luigi Tosti, nella sua “nuova veste” di cittadino-imputato, indirizzava al Ministro di Giustizia Roberto Castelli ed al Presidente del Tribunale dell’Aquila una missiva, datata 29.9.2005, con la quale ripeteva le medesime richieste che aveva avanzato come “magistrato”, e cioè chiedeva che venissero rimossi i crocifissi da TUTTE le aule giudiziarie italiane o che, in alternativa, egli fosse autorizzato ad esporre altri simboli religiosi a fianco del crocifisso, preannunciando che, in caso contrario, “sarebbe stato costretto a rifiutarsi di farsi processare all’udienza che si sarebbe tenuta il 18 novembre 2005”.
10°) Non avendo ottenuto risposta, il dr. Tosti depositava il 15.11.2005 una memoria con la quale, dopo aver prospettato ai giudici del Tribunale dell’Aquila che sarebbe stato costretto a non presenziare all’udienza del 18.11.2005 perché il Ministro di Giustizia non aveva rimosso i crocifissi e non lo aveva autorizzato ad esporre i propri simboli, invitava i Giudici a sollevare dinanzi alla Corte Costituzionale un conflitto di attribuzione, allo scopo di consentire la regolare celebrazione del processo: come imputato, infatti reclamava il rispetto del principio di laicità e dei suoi diritti di eguaglianza e libertà religiosa (cfr. documento n. 3 fasc. dr. Tosti).
11°) Il Tribunale respingeva questa richiesta, sicché il dr. Tosti -pur non essendo esposto nell’aula il crocifisso- “si rifiutava di farsi processare”, cioè si allontanava immediatamente dall’aula.
12°) Il Tribunale riteneva che l’allontanamento del dr. Tosti Luigi fosse una sua scelta volontaria e, pertanto, proseguiva il dibattimento: all’esito condannava il dr. Tosti a sette mesi di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici per un anno.
13°) Avverso tale sentenza il dr. Tosti interponeva appello, eccependo la nullità dell’intero dibattimento -perché celebrato in sua giustificatissima assenza- e riproponendo, in via preliminare, la stessa identica questione: invitava cioè i magistrati a sollevare un conflitto di attribuzione perché, in caso contrario, sarebbe stato costretto a “rifiutarsi di farsi processare ANCHE dai giudici d’appello”.
14°) Nella sua qualità di “giudice monocratico del Tribunale di Camerino”, poi, il dr. Tosti promoveva, con ricorso depositato il 5 dicembre 2005, un conflitto di attribuzione nei confronti del Ministro di Giustizia: la Consulta lo dichiarava “inammissibile” con ordinanza n. 127/2006.
15°) Con esposto del 26.2.2006, indirizzato al CSM, al P.G. della Cassazione ed al Ministro di Giustizia, il dr. Tosti denunciava gravi irregolarità che erano state perpetrate, ai suoi danni e ai danni di altri soggetti, dai magistrati del Tribunale dell’Aquila. In particolare il dr. Tosti denunciava:
a) che il Collegio che lo aveva giudicato il 18.11.2005 era stato costituito “ad hoc”, per la sua persona, violando la norma costituzionale sulla precostituzione del giudice naturale, violando le norme sull’ordinamento giudiziario, violando le circolari del CSM e, dulcis in fundo, violando le tabelle del Tribunale dell’Aquila: il tutto, allo scopo di formare un Collegio giudicante prevenuto nei suoi confronti (infatti il dr. Mario Montanaro, che si era pronunciato a favore dell’eliminazione dei crocifissi, era stato arbitrariamente escluso, per far posto al GUP dr. Carlo Tatozzi che, oltre a non poterne far parte anche a cagione delle mansioni di GUP, si era in precedenza pronunciato “a favore dei crocifissi”);
b) che tre precedenti ricorsi di urgenza, attivati in tempi diversi dall’Avv. Dario Visconti per ottenere la rimozione dei crocifissi dai seggi elettorali, erano stati tutti assegnati al Presidente del tribunale dell’Aquila dott. Antonio Villani, in presumibile violazione dell’obbligo di assegnare gli affari civili secondo criteri di turnazione;
c) che, poi, l’arcivescovo dell’Aquila Giuseppe Molinari aveva bollato i ricorsi dell’Avv. Dario Visconti definendoli pubblicamente, sulla stampa, come “un’iniziativa stupida e vergognosa”: il Presidente dr. Villani, cattolico e legato da amicizia col Vescovo, nonché partecipante alle “messe” che venivano celebrate, anche dal Vescovo, all’interno del palazzo di Giustizia aquilano, aveva poi respinto i tre ricorsi, supportandone il rigetto con una massima della Cassazione completamente travisata, cioè ideologicamente falsa;
d) che, infine, il dr. Carlo Tatozzi, che non faceva tabellarmente parte dei collegi civili, aveva illegalmente presieduto il Collegio civile che aveva poi respinto i tre successivi reclami.
16°) Di lì a poco venivano aperti altri sei identici procedimenti penali contro il dr. Luigi Tosti, relativi ad altre udienze non tenute dal magistrato: il P.M. chiedeva al GUP il rinvio a giudizio.
17°) Avendone interesse per far constatare -sia al GUP che alla Corte di Appello- che il Ministro di Giustizia seguitava a rifiutarsi di aderire alle sue richieste, il dr. Tosti inoltrava, in data 5 settembre 2006, una lettera al nuovo Ministro di Giustizia Clemente Mastella con la quale, “nella sua duplice qualità di magistrato ordinario e di cittadino italiano imputato nei procedimenti penali nn. 2366/05, 3188/05, 3373/05, 3800/05R.G., 78/2006 e 194/2006 Mod. 21 P.M. Tribunale de L'Aquila e nei procedimenti riuniti nn. 637 e 638/2005 R.G. Tribunale de L'Aquila”, gli ribadiva la richiesta di rimuovere i crocifissi o, in alternativa, di esporre tutti gli altri simboli, preannunciando che, in caso contrario sarebbe stato costretto a rifiutarsi di farsi processare.
18°) Con questa lettera il dr. Tosti stigmatizzava le intimidazioni e le critiche oltraggiose che alte cariche istituzionali dello Stato, alti gerarchi della Conferenza Episcopale Italiana e numerosi politici di spicco -tra i quali lo stesso Mastella- avevano posto in essere nei confronti del giudice dr. Mario Montanaro, avendo cura di riportare fedelmente le contumelie con le quali si era pubblicamente “linciato” questo onestissimo e preparatissimo giudice dell’Aquila, “reo” soltanto di aver osservato la Costituzione italiana e rispettato le sentenze della Cassazione, e cioè “colpevole” di aver ordinato in via cautelare la rimozione dei crocifissi dalle scuole di Ofena allo scopo di porre termine ai criminali atti di discriminazione religiosa di cui erano rimasti vittime i figli di un cittadino italiano di fede musulmana, tale Adel Smith.
19°) Nella lettera il dr. Tosti criticava anche le pronunce del TAR del Veneto e del Consiglio di Stato, che avevano impudentemente attribuito al simbolo del crocifisso “valenze” di “rispetto reciproco”, di “tolleranza”, di “amore verso il prossimo”, di “civiltà” e di “laicità”, oltraggiando in tal modo la VERITA’ della Storia ed offendendo la memoria delle centinaia di milioni di esseri umani che erano stati perseguitati, massacrati, sbudellati, torturati, ghettizzati, schiavizzati, discriminati, emarginati dalla Chiesa Cattolica, autrice dei più efferati crimini commessi contro l’umanità negli ultimi 2.000 anni: crimini ordinati e condivisi dai Papi e dalle gerarchie ecclesiastiche, senza alcun moto di pentimento e/o di resipiscenza.
20°) Infine il dr. Tosti chiedeva al Ministro Mastella di conoscere gli sviluppi e l’esito dell’esposto che aveva indirizzato contro i giudici dell’Aquila il 26.2.2006, avendone interesse ai fini di una eventuale legittima suspicione.
21°) Non avendo evidentemente gradito la “VERITA’” (e, in effetti, la Chiesa cattolica non ha mai gradito la VERITA’, reprimendola con le “mordacchie”, i roghi e il carcere inflitti agli “eretici” e ai vari “Giordano Bruno” e “Galileo Galilei”), il Ministro di Giustizia Clemente Mastella, “compulsato” da un’interpellanza dell’On.le Francesco Storace, politico di destra e, quindi, ideologicamente sintonizzato con la Chiesa Cattolica la quale -ad onta degli insegnamenti di povertà, di solidarietà e di eguaglianza del clone del Dio Mitra -cioè di Gesù- ha sempre praticato l’esatto contrario, accumulando ricchezze sterminate su questo Pianeta e stringendo alleanze e “Concordati” con le più efferate Dittature di destra, da Hitler a Mussolini, da Franco a Salazar), vedeva bene di affidare agli ispettori ministeriali l’incarico di ricavare dal testo della lettera un qualche pretesto per promuovere un procedimento disciplinare nei confronti del dr. Tosti.
22°) La notizia dell’attivazione del procedimento disciplinare contro il dr. Luigi Tosti veniva “riservatamente” sbandierata agli otto venti, il 3.11.2006, da RAI News 24, su “riservatissima” imbeccata dell’On.le Storace, “riservatamente” informato dal Ministro Mastella (doc. n. 13: “Mastella mi ha assicurato la proposizione di un procedimento disciplinare contro il dr. Tosti Luigi”).
23°) E, in effetti, dopo circa un mese il magistrato di Camerino era costretto a recarsi presso il Presidente della Corte di Appello di Ancona per ritirare un plico, definito “riservato” (sic!!!), col quale gli veniva contestato, “riservatamente” (sic!!!), il seguente illecito:
“per avere, essendo tuttora sospeso dalle funzioni e dallo stipendio nel quadro del procedimento disciplinare a suo carico n. 22/05/SD4A P.G. Cass., gravemente mancato ai doveri, tenendo comportamento non corretto nei confronti dei giudici del Tribunale di L'Aquila, precipuamente esprimendosi, in taluni passaggi dell'esposto in data 5/09/2006, in violazione dei criteri di equilibrio e di misura, in guisa da compromettere la credibilità personale, il proprio prestigio e decoro, nonché il prestigio dell'istituzione giudiziaria.
Afferma, nel dettaglio, tra l'altro, il dott. Tosti: “Ribadisco, poi, che nella mia qualità di imputato mi rifiuto di farmi processare da giudici partigiani che si identificano platealmente nei crocifissi cattolici appesi sopra la loro testa, e non nei simboli neutrali dell'unità nazionale che, guarda caso, sono accuratamente estromessi dalle aule giudiziarie italiane: tanto più in processi nei quali questi giudici di parte cattolica -che cioè accettano di far parte di un'Amministrazione connotata di cristianità- sono chiamati ad esprimere un giudizio di colpevolezza o di innocenza in relazione ad un mio comportamento che è diametralmente opposto, cioè di rifiuto radicale di giudicare in nome di quel “loro” idolo.
Ribadisco che non accetto di essere processato da giudici che sono indotti a condannarmi per non correre il rischio, in caso contrario, di essere sottoposti a procedimenti disciplinari da parte del Ministro di Giustizia, nonché al linciaggio pubblico da parte delle più Alte cariche istituzionali, politiche e “religiose” dello Stato Cattolico Italiano.”
Concludendo, poi, il predetto magistrato, trasgredendo a dismisura i menzionati doveri di correttezza ed equilibrio:
“Complimenti alla “logica” ed all'impudenza. Credo proprio che per chiudere “degnamente” i processi a mio carico in quel de L'Aquila sarebbe opportuno che la futura formazione dei Collegi giudicanti fosse demandata al Vaticano, alla C.E.I. ed all'Opus Dei: sempreché, ovviamente, non si voglia scomodare la Divina Provvidenza in persona.”
24°) Il dr. Tosti, tutt’altro che intimorito dall’ennesima “incolpazione” persecutoria, appioppatagli con la pluricollaudata tecnica della “estrapolazione capziosa delle frasi”, inoltrava al GUP del tribunale dell’Aquila una memoria con la quale, dopo averlo reso edotto che il Ministro di Giustizia Mastella non aveva esaudito nessuna delle richieste formulategli nella lettera del 5.9.2006, lo invitava a sollevare un conflitto di attribuzione nei confronti del Ministro di Giustizia, avendo peraltro cura di ripetere, in modo pedissequo, le stesse identiche frasi che gli erano state disciplinarmente censurate il giorno prima.
25°) Una copia di questa memoria veniva inoltrata dal Tosti sia al Sost. Proc. Gen. dott. Vittorio Martusciello, delegato all’istruttoria (cfr. lettera datata 5.1.2007, in atti), che al Ministro Mastella, “caldeggiando entrambi a promuovere altro procedimento disciplinare, con la contestazione dell’aggravante della recidiva”: significativamente, né il Sost. Proc. Generale Martusciello né il Ministro Mastella contestavano il nuovo illecito.
26°) Il ricorrente inviava allora due memorie (in atti) con le quali innanzitutto rappresentava la palese infondatezza dell’incolpazione: egli non era stato “scorretto” con nessun giudice, tantomeno dell’Aquila, sia perché aveva esercitato i suoi diritti di difesa e di libertà di opinione, limitandosi a riferire, con pertinenza e continenza, fatti VERI ed opinioni giuridiche condivise dalla Cassazione, dalla Corte Costituzionale italiana, da quella svizzera, da quella tedesca, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e, dulcis in fundo, dallo stesso CSM, sia perché aveva prospettato una problematica -quella della “imparzialità simbolica dei giudici costretti a giudicare sotto i crocifissi”- che riguardava TUTTI i magistrati italiani (egli incluso), e non soltanto i magistrati dell’Aquila.
27°) Secondariamente il dr. Tosti denunciava l’arbitrarietà dell’incolpazione perché, in seguito all’entrata in vigore del Decreto L.vo n. 109/2006, era stato abrogato l’art. 18 del D.L.gs n. 511/1946 ed era stato introdotto il nuovo principio secondo cui gli illeciti disciplinari potevano essere “perseguiti” SOLO nelle ipotesi “TASSATIVE” previste dagli artt. 2, 3, e 4 dello stesso decreto: il Ministro Mastella, non sapendo a quale Santo votarsi, si era limitato a richiamare la violazione del “GENERICO DOVERE” contemplato dal comma 2° dell’art. 1, a mente del quale “il magistrato, anche fuori dell’esercizio delle proprie funzioni, non deve tenere comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria”.
28°) Il Sost. Proc. Gen. dott. Martusciello, accortosi della palese fondatezza di questa eccezione dirimente, preferiva trovare un pretesto per mantenere in piedi l’incolpazione, come nella favola del lupo e dell’agnello.
29°) Per la precisione, con un’operazione di alchimia giuridica a dir poco ardita, il dr. Martusciello “rettificava” l’incolpazione, affermando che il fatto contestato integrava -si badi bene!- gli estremi di un “reato contro la Magistratura nel suo complesso e contro il Ministro di Giustizia”, reato di cui nessuno si era in precedenza mai accorto, e la cui rubricazione veniva significativamente occultata all’incolpato.
30°) Appresa questa strabiliante notizia -che gli proveniva da un Magistrato posto ai vertici dell’Ufficio del Pubblico Ministero e, dunque, particolarmente ferrato e qualificato nel campo penale- il dr. Luigi Tosti si auto-denunciava, chiedendo sia al P.M. romano che a quello aquilano di procedere nei suoi confronti “per tutti i reati che credevano di ravvisare nelle frasi incriminate”.
31°) Il Procuratore della Repubblica dell’Aquila, però, archiviava la notizia di reato (doc. n. 1 fascicolo dr. Tosti), non ravvisando nelle frasi incriminate alcuna valenza offensiva e/o denigratoria nei confronti di magistrati o del ministro, sicché il dr. Tosti si presentava il 7 dicembre 2007 -dinanzi alla Sezione Disciplinare del CSM- “con l’assoluzione in tasca”, cioè col decreto di archiviazione.
32°) Come nella favola del lupo e dell’agnello, però, il Procuratore Generale dott. Marco Pivetti vedeva bene di “rettificare” -per la terza volta!!- l’incolpazione, ricorrendo ad un’operazione di alchimia giuridica ancora più rocambolesca della precedente.
33°) Il P.G. infatti, dopo aver “tranquillamente” ammesso che il suo Collega dott. Vittorio Martusciello aveva “toppato”, dal momento che nelle frasi incolpate non era ravvisabile alcuna ipotesi di reato, sosteneva, però, che il fatto contestato doveva essere sussunto, attraverso una laboriosa operazione di “interpretazione estensiva”, nell’ambito della lettera l) dell’art. 3, la quale -si badi bene- puniva “ogni altro comportamento tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza”.
34°) Il Procuratore Generale premetteva, innanzitutto, che questa ipotesi di illecito era stata in realtà abrogata dalla L. n. 269 del 24.10.2006 -e questo “perché - a suo dire- il Legislatore aveva dovuto porre rimedio ad un chiaro “errore”“- ma che, tuttavia, l’ “errore emendato dal Legislatore” poteva -ed anzi doveva!- essere “resuscitato” e “riportato a novella vita” per il dr. Luigi Tosti, le cui sembianze, come noterete, si fanno sempre più ovine: e questo perché in materia disciplinare vigeva e vige il principio tempus regit actum e, nel caso di specie, il fatto addebitato ricadeva nel lasso di tempo di circa 4 mesi (19.4.2006 - 24.10.2006), durante i quali la norma era rimasta in vigore.
35°) Superato questo primo ostacolo, il Procuratore Generale doveva superarne un’altro, questa volta a dir poco TITANICO. Come dallo stesso tranquillamente ammesso, infatti, il comportamento contestato dal Ministro Mastella al dr. Tosti “nulla c’azzeccava” (per dirla alla Di Pietro) col tenore testuale della lettera l) dell’art. 3, che Egli proponeva di applicare all’ “agnello” dr. Luigi Tosti. E, in effetti, è a dir poco un deliquio sostenere che un magistrato, che pretende, nel corso di giudizi penali a suo carico, il rispetto del suo diritto costituzionale di essere giudicato da giudici che siano “imparziali” sotto il profilo della “visibilità”, cioè dell’ “apparenza”, e che cioè non si identifichino in un (SOLO) simbolo religioso ma, semmai, in TUTTI i simboli religiosi, possa essere, per ciò stesso, ritenuto responsabile di....... “aver compromesso la propria immagine di imparzialità, anche sotto il profilo dell’apparenza”!!!!!!!!
In realtà, anche una persona affetta sin dalla nascita da idiozia integrale, che sia stata poi colpita da tredici ictus cerebrali, da demenza senile precoce, da morbo di alzheimer e, infine, sia stata sottoposta dapprima a lobotomia bilaterale e, poi, decerebrata, sarebbe comunque ancora in grado di capire che il magistrato, che pretende di essere giudicato da giudici “visibilmente imparziali”, “non compromette la propria immagine di imparzialità” ma, semmai, LA ESALTA, anche sotto il profilo dell’APPARENZA.
36°) Ebbene, per “superare” questa ciclopica “empasse” il Procuratore Generale proponeva di applicare al dr. Luigi Tosti (la cui epidermide si è oramai irreversibilmente trasformata in un vello lanoso) un’interpretazione che, per superare l’ulteriore ostacolo rappresentato dal divieto, in subiecta materia, dell’interpretazione “analogica”, veniva contrabbandata come “estensiva”.
37°) Per la precisione, il P.G. asseriva che la lettera l) dell’art. 3 doveva essere “allargata” (sic!!!) sino a ricomprendervi il precetto GENERICO enucleato dal comma 2° dell’art. 1 del D. L.vo 23.2.2006 n. 109 (anch’esso abrogato, ma riesumato e risuscitato per l’ “agnello” Tosti!!!), a mente del quale “il magistrato, anche fuori dell’esercizio delle funzioni, non deve tenere comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio etc.”.
38°) In estrema sintesi, dunque, il P.G. proponeva che la lettera l) dell’art. 3, la quale dispone che integrano un illecito disciplinare “i comportamenti, anche fuori dell’esercizio delle funzioni, che compromettano l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza”, dovesse essere “riscritta” e “riletta” in questo modo: “ogni altro comportamento, ancorché legittimo, che comprometta la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria”.
39°) Orbene, è a dir poco lampante che per effetto di questa arditissima “alchimia interpretativa” il P.G. ha di fatto chiesto al CSM di “ripristinare” l’incolpazione iniziale del Ministro -cioè “quella” che era stata ritenuta “fuori-legge” dal suo Collega- peraltro vanificando e “violentando” -e questo è l’aspetto più grave- le finalità perseguite dal legislatore col decreto legislativo n. 109/2006. Ritenere, infatti, che possa essere perseguito QUALSIASI comportamento che, a giudizio insindacabile dei titolari dell’azione disciplinare, violi l’obbligo generico sancito dal comma 2° dell’art. 1, significa ritornare al VECCHIO regime dell’art. 18 del R.D. leg.vo n. 511 del 1946 e, quindi, contraddire e vanificare il NUOVO principio della tipizzazione degli illeciti introdotto dal comma 3° del D.L.vo 109/2006, a mente del quale “le violazioni dei doveri di cui ai commi 1 e 2 costituiscono illecito disciplinare perseguibile nelle ipotesi previste agli articoli 2, 3 e 4”.
40°) Dopo aver proposto questa ardita interpretazione “estensiva”, restava da superare l’ultimo, ciclopico, ostacolo: il dr. Tosti, infatti, non aveva arrecato offesa a nessuno -tantomeno a “magistrati del tribunale dell’Aquila” o al Ministro Mastella- ma si era limitato ad affermare che, se come giudice si era rifiutato di giudicare sotto l’ombra del SOLO crocifisso; come imputato nei procedimenti penali nn. 2366/05, 3188/05, 3373/05, 3800/05R.G., 78/2006 e 194/2006 Mod. 21 P.M. Tribunale de L'Aquila e nei procedimenti riuniti nn. 637 e 638/2005 R.G. sarebbe stato costretto a rifiutarsi -e peraltro già lo aveva fatto il 18 novembre del 2005- di essere processato da giudici che amministravano la giustizia sotto l’ombra del SOLO crocifisso.
41°) Ebbene, per poter pervenire alla richiesta di condanna, il P.G. travisava il chiarissimo significato delle frasi, estrapolandole dal contesto della lettera ed evitando, altresì, di replicare, magari con una sola sillaba, a tutte le argomentazioni difensive che l’incolpato aveva avuto cura di scrivere nelle memorie.: in buona sintesi, il P.G. ravvisava nella prima frase incriminata gli estremi dell’ “offesa” e della “denigrazione” (che erano stati però esclusi dal P.M. e dal GIP dell’Aquila!!!!) mentre riteneva irrilevante la seconda frase, cioè quella che -si badi bene- era stata ritenuta dal Ministro Mastella una “trasgressione....... smisurata”!!!!!!!!
42°) In esito al dibattimento, la Sezione disciplinare del CSM riteneva il Tosti responsabile dell’addebito, limitatamente alla prima frase, e lo condannava alla sanzione dell’ammonimento.
43°) Due giorni dopo -e cioè ben prima del deposito della motivazione della sentenza- l’Agenzia APCOM “SPUTTANAVA” il dr. Tosti a livello nazionale (termine che si mutua dal Ministro Clemente Mastella, trasmissione “Porta a Porta”), diffondendo queste grasse, sguaiate e infamanti menzogne: e cioè che il dr. Luigi Tosti era stato condannato dalla Sezione disciplinare del CSM perché nella lettera inviata al Ministro di Giustizia Mastella il 5.9.2006 “si era lamentato di essere stato condannato, due anni prima (?!?!), da giudici di parte “cattolici” (?!?!), sui quali aveva esercitato pressioni (?!?!), a suo dire, lo stesso Ministro di Giustizia (?!?!) Contro l’APCOM il dr. Tosti ha ovviamente proposto querela penale per diffamazione.
44°) In sintesi, il 7 dicembre 2007 il Ministro di Giustizia On.le Clemente Mastella e l’On.le Francesco Storace hanno conseguito, grazie alla fattiva cooperazione della Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, un’ “epica vittoria”, che questi due illustri personaggi della Politica italiana potranno esibire nel loro palmarès e che sicuramente rimarrà scolpita negli annali della Storia della Giustizia Disciplinare di questa Repubblica, facendo infliggere la sanzione dell’ammonimento allo “sporco ebreo” dr. Luigi Tosti, “reo” di aver osato dire -come aveva fatto 370 anni prima un altro criminale, tal Galileo Galilei- la pura e semplice VERITA’.
45°) Si segnala che la sentenza di condanna è stata redatta dal relatore dr. Mario Fresa ricopiando, parola per parola, la requisitoria del Procuratore Generale: il dr. Tosti -tanto per evidenziare lo spessore del pulpito dal quale provengono le prediche- ha dovuto subire un giudizio disciplinare perché, nel redigere la parte relativa allo “svolgimento del processo”, aveva attinto ad un memoria di un avvocato.
46°) Si segnala anche che, non essendo minimamente in grado di replicare o ribattere alle puntuali controargomentazioni difensive del dr. Tosti, il CSM non ha speso neppure la radice cubica di una sillaba per giustificare e motivare perché mai siano state disattese le argomentazioni e i documenti che palesavano l’innocenza dell’incolpato, riducendo così il diritto costituzionale di difesa, che compete a qualsiasi essere umano, ivi incluso il dr. Luigi Tosti, ad una mera larva spettrale.
MOTIVI DEL RICORSO

(NOTA: pur ritenendo che debba essere esclusa l’applicabilità dell’art. 366 bis del C.P.C., si procederà, per motivi cautelari, alla formulazione dei “quesiti”.)

1° MOTIVO
Violazione e falsa applicazione dell’art. 20, comma 3°, D. L.vo n. 109/206 - Parziale illegittimità costituzionale della norma.

Come sopra esposto, con atto del 28.2.2007 il Sost. Proc. Generale dott. Martusciello ha modificato l’incolpazione disciplinare, ipotizzando che il fatto contestato dal Ministro integrasse un “reato, per il contenuto gravemente ed ingiustificatamente lesivo dell’autorità di magistrati e dell’ordine giudiziario nel suo complesso, nonché del Ministro destinatario dell’esposto”.
Il dott. Tosti si è allora autodenunciato, accusandosi di tutti i reati ravvisabili sia nelle frasi contestate che in tutte le altre “identiche frasi che egli aveva scritto nella sua memoria difensiva inoltrata al Tribunale penale dell'Aquila in data 18.11.2005, nell'atto di appello inoltrato alla Corte di Appello de L'Aquila in data 27.1.2006, nella lettera al Ministro di Giustizia Castelli del 1.5.2005 e nella memoria inoltrata al GUP del Tribunale de L'Aquila dott. G. Cappa il 30.1.2007” (la Corte è invitata ad esaminare l’autodenuncia, di cui al documento n. 1 del fascicolo del dr. Tosti).
Ebbene, il Procuratore della Repubblica dell’Aquila dott. Alfredo Rossini ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione di tale notizia criminis, ritenendo che nelle frasi usate dal dr. Tosti non esistesse la benché minima potenzialità offensiva o denigratoria, né nei confronti di magistrati né nei confronti del Ministro.
Così, per la precisione, si è espresso il P.M. dr. Rossini: “il dr. Tosti ha presentato una esplicita denuncia con riferimento alle normative vigenti e non si è dilungato in espressioni offensive o di disprezzo verso le autorità” e, pertanto, “non sussiste il reato di vilipendio né quello di diffamazione” (la Corte è invitata ad esaminare la richiesta di archiviazione e il decreto di archiviazione, di cui al documento n. 1, foglio 9, del fascicolo del dr. Tosti).
Alla luce di tale pronuncia giurisdizionale, che impinge nel merito della supposta “offensività” delle frasi, l’assoluzione in sede disciplinare dalle presunte, quanto cervellotiche, “offese” ai giudici ed al Ministro era d’obbligo.
La Sezione Disciplinare del CSM, invece, è pervenuta alla condanna dell’incolpato ritenendo -in contrasto inconciliabile con la pronuncia di archiviazione- che il dr. Tosti si sia in realtà reso responsabile di “offese” e “denigrazioni” a carico dei magistrati aquilani e del Ministro di Giustizia: offese e denigrazioni che, però, sono state ritenute dal CSM non punibili, soltanto perché mancavano -a suo dire- alcuni “elementi essenziali” del reato.
Per la precisione, la Sezione Disciplinare del CSM -dopo aver escluso la materialità del reato di vilipendio delle istituzioni- ha affermato (cfr. pag. 8 sentenza) che il reato di oltraggio al Corpo giudiziario, di cui all’art. 342 C.P., non era punibile nella fattispecie soltanto perché il fatto non era stato commesso dal dr. Tosti al cospetto dell’organo giudiziario “oltraggiato”, oppure con scritto al medesimo indirizzato, bensì con uno “scritto, contenente le espressioni oltraggiose nei confronti dei giudici dell’Aquila, indirizzato al Ministro di Giustizia, e non ai giudici aquilani”.
Alla stessa stregua, poi, il CSM ha escluso anche la punibilità del reato di diffamazione perché la missiva ingiuriosa non era destinata a più persone, ma solo al Ministro, e quello di ingiuria perché lo scritto non era indirizzato alle persone offese, ma solo al Ministro.
Ebbene, queste valutazioni del CSM sono palesemente erronee, dal momento che le frasi che si assumono “offensive” ed “oltraggiose” in realtà sono state dal dr. Tosti scritte in numerosissimi atti difensivi, indirizzati agli stessi organi giudicanti (ivi inclusa la Corte di Cassazione penale e, oggi, queste stesse SS. UU.), e, inoltre, sono state anche “spiattellate” dal dr. Tosti Luigi -e dai suoi difensori- “in faccia” ai giudici del Tribunale dell’Aquila e della Corte di Appello, cioè in pubblica udienza.
Orbene, il dr. Luigi Tosti si è autodenunciato ANCHE per questi singoli comportamenti, venendo poi prosciolto col citato decreto di archiviazione proprio nel merito, e cioè perché le presunte offese sono state ritenute assolutamente insussistenti, e non -come erroneamente ritenuto dal CSM- per la supposta “carenza di elementi costitutivi” del reato che, invece, nella realtà esistono tutti.
A tal ultimo proposito la Corte è in primo luogo invitata a verificare la seguente circostanza di fatto, risultante dai documenti prodotti dall’incolpato: e cioè che il dr. Tosti, ricevuta la comunicazione della vessatoria incolpazione del Ministro Mastella, ha deliberatamente ripetuto, in modo pedissequo, le frasi “incriminate”, scrivendole per ben due volte nella memoria indirizzata al GUP dell’Aquila per l’udienza del 30.1.2007 (in atti) e provvedendo, poi, ad inoltrare tale scritto difensivo, assieme alla lettera 5.1.2007 (in atti), sia al Sost. Proc. Generale dr. Martusciello che al Ministro di Giustizia.
E’ pertanto evidente che le frasi che sono state ritenute ingiuriose dal CSM sono state in realtà pedissequamente scritte in atti destinati ad organi giudicanti, sono state poi “spiattellate” in faccia agli stessi organi giudicanti e, infine, sono state propalate e comunicate a più soggetti.
E dunque palesemente erroneo quanto affermato dalla Sezione Disciplinare del CSM, e cioè che le “frasi incriminate” non costituiscano reato SOLTANTO a causa della mancanza di alcuni elementi costitutivi: in realtà tutti gli elementi costitutivi sussistevano e sussistono ma, nonostante ciò, il P.M. ed il GIP aquilani hanno prosciolto il dr. Tosti nel merito, e cioè perché hanno ritenuto che nelle frasi “incriminate” non sussista alcuna cervellotica valenza offensiva e/o denigratoria.
In secondo luogo le SS.UU. della Corte sono invitate a verificare che il dr. Luigi Tosti si è autodenunciato “anche” in relazione alla memoria difensiva che aveva inoltrato al Tribunale Aquilano, sottoscrivendola, per l’udienza del 18.11.2005, cioè un anno prima: tale memoria risulta inserita come documento n. 3 nel fascicolo del dr. Tosti e le SS.UU. della Corte potranno verificare che in essa sono contenute frasi di contenuto perfettamente identico a quelle “incriminate”, che qui di seguito si riportano:
“Nella sua nuova veste di “imputato” il dott. Tosti, con lettera del 29.9.05 ha chiesto al Ministro di Giustizia e al Presidente del Tribunale de L'Aquila che venissero rimossi i simboli religiosi da tutte le aule giudiziarie italiane o, in subordine, che venissero esposti tutti i simboli religiosi, preannunciando che, in caso contrario, si rifiuterà di presenziare all'udienza dibattimentale del 18.11.2005 per gli stessi motivi di libertà di coscienza ritenuti validi dalla Cassazione penale nella sentenza 4273/2000.
Questi i motivi del rifiuto:
1. l'imputato Tosti non accetta di essere processato -tra l'altro proprio in relazione a fatti collegati all'imposizione del crocifisso- da un'amministrazione giudiziaria organizzata in modo “partigiano”, che cioè esercita le funzioni giurisdizionali identificandosi in modo plateale nel Dio dei cattolici;
2. l'imputato non accetta di essere processato in ambienti non neutrali connotati da un simbolo religioso nel quale non si identifica affatto e che, anzi, contesta per tutti i gravissimi crimini che sono stati perpetrati, in suo nome, dalla Chiesa Cattolica e dai cristiani in millenni di storia;
3. egli non accetta di essere oggetto di atti di discriminazione religiosa da parte dello Stato che, negandogli il pari diritto di esporre i suoi simboli, gli nega la pari opportunità di essere giudicato in un ambiente connotato anche da “altre ideologie o confessioni religiose”......
l’imputato ha il sacrosanto diritto di essere processato in un ambiente imparziale e neutrale e, per converso, sul Ministro di Giustizia gravava -e tuttora grava- l'obbligo giuridico di rimuovere dalle aule giudiziarie quell'unico simbolo, perché lesivo del principio di laicità e di diritti soggettivi assoluti di rango costituzionale.....
Ove l’Amministrazione giudiziaria non provveda a rimuovere i crocifissi, all’imputato andrà ineluttabilmente riconosciuto il diritto di rifiutarsi, per legittimi motivi di “libertà di coscienza”, di presenziare al processo....
l'imputato reclama la libertà di coscienza, e cioè il diritto di essere giudicato da un tribunale laico, che cioè non si identifichi nel simbolo religioso del crocifisso: simbolo che il Ministro di Giustizia ha imposto e impone ai giudici in palese violazione dell'art. 101 Cost. (“La giustizia è amministrata in nome del popolo italiano”, e non di un qualche Dio), dell'art. 104 Cost. (“La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere...”), dell'art. 111 della Cost. (“Ogni processo si svolge.....davanti a giudice terzo e imparziale.”), dell'art. 110 della Costituzione (“....spettano al Ministro della Giustizia l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”: il che esclude che il Ministro possa imporre al potere giudiziario “simboli ideologico-religiosi”, che nulla hanno a che vedere con l'“arredamento” e la dotazione dei mezzi materiali necessari ai “servizi relativi alla giustizia”), dell'art. 3 della Costituzione (che sancisce l'eguaglianza di tutti i cittadini e, quindi, vieta le discriminazioni religiose)...........
Il crocifisso e il suo valore simbolico. La legge dispone che gli unici simboli nazionali che debbono essere esposti nei locali pubblici sono la “bandiera tricolore” e l' “effige del Presidente della Repubblica”. La ratio evidente dell'esposizione dei simboli nazionali nei luoghi pubblici -ove i poteri pubblici esercitano, pubblicamente, funzioni pubbliche- è quella di evocare e trasmettere, appunto in forma simbolica, un messaggio solenne di questo tenore: “in questo luogo istituzionale la funzione pubblica è esercitata dal pubblico funzionario, nei confronti dei cittadini italiani, in nome del popolo italiano, il quale popolo si identifica, appunto, nella sua bandiera e nel ritratto del suo Capo supremo, il Presidente della Repubblica.
Esporre, pertanto, nei luoghi pubblici i “crocifissi” -cioè i simboli religiosi “partigiani” che identificano solo i cattolici- significa, necessariamente, evocare, affermare e trasmettere quest'altro messaggio solenne: “in questi luoghi pubblici i pubblici funzionari esercitano i loro poteri pubblici, nei confronti di tutti i cittadini italiani (anche) in nome del Dio dei cattolici”.
Questo valore evocativo del messaggio può legittimamente risultare intollerabile, sia per i cittadini non cattolici che lo subiscono sia per i funzionari non cattolici che sono costretti a trasmetterlo: infatti, l'esercizio delle pubbliche potestà deve essere, in uno Stato non confessionale, del tutto neutro ed imparziale. L'intollerabilità ideologica di “questo” messaggio, evocato dal crocifisso, può essere parificata a quella che sarebbe evocata dall'esposizione, nei luoghi pubblici, di qualsiasi altro simbolo “partigiano”. Si ipotizzi, ad esempio, il caso estremo della “croce” uncinata nazista e ci si interroghi, poi, se non sarebbe lecito che “coloro che non si identificano in quel simbolo” ne possano chiedere a buon diritto la rimozione e, in caso contrario, possano rifiutarsi di partecipare agli atti pubblici compiuti in suo nome..........
il “succo” del rifiuto opposto dall'odierno imputato Tosti Luigi è proprio questo:
1°). egli non accetta di essere costretto, per esercitare il suo diritto di difesa, a recarsi in un posto pubblico ove è illecitamente esposto un simbolo religioso di parte, nel quale non si identifica affatto e che, anzi, contesta per tutti i gravissimi crimini che sono stati perpetrati, in suo nome, dalla Chiesa Cattolica e dai cristiani in millenni di storia;
2°). egli non accetta di essere assoggettato, in occasione dell'espletamento del processo penale a suo carico, ad un'Amministrazione della Giustizia organizzata in modo “partigiano”, la quale esercita le potestà pubbliche identificandosi in modo plateale e simbolico nel Dio dei cattolici.....
Ebbene, ANCHE in relazione a questa memoria difensiva -che indubbiamente integra uno “scritto” ai sensi dell’art. 342 C.P. e che risulta spiattellata in faccia ai giudici- il P.M. dell’Aquila ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione, non ravvisando in essa alcuna espressione “offensiva”.
C’è da chiedersi, dunque, come si possa conciliare il fatto che il dr. Luigi Tosti sia stato prosciolto in sede penale perché nelle sue frasi è stata esclusa qualsiasi valenza e/o intento offensivo e denigratorio, mentre in sede disciplinare egli sia stato “tranquillamente” condannato dal CSM per il motivo opposto, cioè per avere “offeso” e “denigrato” i giudici dell’Aquila e il Ministro di Giustizia.
E, in effetti, il CSM ha motivato la condanna affermando:
a. che il rifiuto del Tosti di farsi processare è di per sé frase offensiva, specie se si accompagna alla denigrazione dell’organo giudicante”;
b. che “un magistrato ...non può legittimamente difendersi “dal” processo o “fuori” del processo denigrando l’organo giudicante...e che ha il dovere deontologico di difendersi “nel” processo, a pena di screditare non soltanto i singoli magistrati che sono tenuti a giudicarlo, ma l’istituzione giudiziaria nel suo complesso;
c. che “il dr. Tosti ha voluto porre in dubbio..che i giudici aquilani fossero di parte in quanto condizionati dal crocifisso affisso nell’aula” e che essi “sono stati accusati di giudicare non “nel nome del popolo italiano” ed in conformità alla Costituzione verso la quale hanno dichiarato osservanza e fedeltà...ma in nome del “loro” idolo e di essere indotti a condannarlo per non correre il rischio di essere sottoposti a procedimenti disciplinari, nonché al linciaggio pubblico da parte di autorità politiche e religiose”.
La contraddittorietà tra le due pronunce è eclatante e inconciliabile: non si può infatti giustificare che gli Organi istituzionalmente deputati per l’esercizio dell’azione penale -cioè il P.M. dell’Aquila ed il GIP- abbiano escluso l’esistenza di qualsiasi frase offensiva nei confronti dei giudici e del Ministro e, quindi, di qualsiasi “reato” di “vilipendio” e di diffamazione, mentre il CSM abbia ritenuto l’esatto contrario, pur non essendo punibile per la carenza di altri elementi costitutivi dei reati.
Il ricorrente sostiene che questa palese contraddizione debba essere risolta in base al disposto dell’art. 20, comma 3°, del D.L.vo 109/2006, anche se nel caso di specie non vi è stata una “sentenza penale irrevocabile di assoluzione”, ma soltanto un “decreto di archiviazione”. Se si considera, infatti, che il decreto di archiviazione impedisce addirittura la celebrazione del processo penale -stante la manifesta infondatezza, nel merito, della notitia criminis- è illogico ritenere che la fattispecie contemplata dal comma 3° non includa, come il più include il meno, l’ipotesi dell’archiviazione disposta “perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso”.
Ove non si addivenga a questa interpretazione estensiva della norma, chiaro sarebbe il vizio di incostituzionalità della stessa, non essendo giustificabile, sotto il profilo dell’eguaglianza (art. 3 Cost.), la disparità di trattamento tra chi si vede addirittura archiviare la notitia criminis per manifesta infondatezza nel merito e chi, invece, essendo gravato da indizi e prove di colpevolezza, debba attendere l’esito del processo penale per ottenere una pronuncia di pari portata. Questo comportamento deteriore -riservato a chi appare talmente innocente da non necessitare neppure di un rinvio a giudizio- non risponde ad alcuna logica o giustificazione: pertanto si eccepisce, in via gradata, l’incostituzionalità della norma nella parte in cui esclude che abbia autorità di giudicato nel giudizio disciplinare il decreto di archiviazione pronunciato perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso.
Va da sé che il dr. Tosti provvederà, alla luce della sentenza del CSM che lo ha ritenuto “responsabile” di “offese denigratorie” nei confronti di corpi giudiziari e del Ministro -ma non punibile per la mancanza di alcuni elementi costitutivi- ad autodenunciarsi per la seconda volta al procuratore della Repubblica dell’Aquila: gli “elementi costitutivi” dei supposti quanto cervellotici reati, infatti, sussistono tutti.

Quesiti di diritto:
a) si chiede se il principio sancito dall’art. 20, comma 3°, del D.L.vo 109/2006, a mente del quale la sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha autorità di cosa giudicata nel giudizio disciplinare quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, si applica anche al “decreto di archiviazione” disposto per gli stessi motivi e se, dunque, tale decreto precluda l’esercizio dell’azione disciplinare e la condanna che si fondino sulla supposizione dell’esistenza del fatto o della commissione di esso da parte dell’incolpato;
b) si chiede, in via subordinata, se sia giustificabile, sotto il profilo dell’eguaglianza (art. 3 Cost.), la disparità di trattamento tra chi si vede archiviare la notitia criminis per manifesta infondatezza nel merito e chi, invece, essendo gravato da indizi e prove di colpevolezza, debba attendere l’esito del processo penale per ottenere una pronuncia di pari portata e se, dunque, sia affetto da incostituzionalità l’art. 20, comma 3°, del D.L.vo n. 109/2006, nella parte in cui esclude che abbia autorità di giudicato nel giudizio disciplinare il decreto di archiviazione pronunciato perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso.

2° MOTIVO
Violazione e falsa interpretazione e applicazione dell’articolo 3 della Legge 24.10.2006 n. 269, lettera a) (che abroga i commi 2 e 3 del D. L.vo n. 109/2006), lettera d) n. 4 (che abroga la lettera l) dell’art. 3 del D. L.vo n. 109/2006) e q) (che aggiunge, dopo l’art. 32 del D. L.vo n. 109/2006, l’art. 32 bis).
1. Per pervenire alla condanna del dr. Luigi Tosti la Sezione Disciplinare ha applicato alcune norme che sono state abrogate dalla Legge 24 ottobre 2006 n. 269 e, per la precisione, l’art. 3, lettera l), e l’art. 1, commi 2° e 3°, del D.L.vo n. 109 del 2006.
E, in effetti, accogliendo l’impostazione accusatoria del Procuratore Generale la Sezione Disciplinare del CSM ha ritenuto che, vertendosi in materia disciplinare (e non penale), il caso del dr. Tosti dovesse essere disciplinato dalla legge vigente al momento della condotta considerata, e non dalla legge “più favorevole” all’incolpato.
2. Nell’affermare questo principio, però, il CSM è partito da un presupposto del tutto sbagliato: non ha infatti considerato che le modifiche che sono state apportate dalla Legge 24 ottobre n. 269 al D. L.vo n. 109/2006 hanno natura dichiaramente RETROATTIVA, cioè retroagiscono alla data di entrata in vigore del D.L.vo n. 109/2006 (cioè il 19.6.2006), sicché il principio tempus regit actum non vale nella fattispecie in esame.
3. Questa natura RETROATTIVA delle modifiche risulta, innanzitutto, dall’art. 32-bis della L. 269, il quale dispone, in modo espresso, che “le disposizioni di cui al presente decreto (cioè il decreto leg.vo 109, come risultante dalle modifiche apportate dalla legge 269/2006: n.d.r.) si applicano ai procedimenti disciplinari promossi a decorrere dalla data della sua entrata in vigore” (cioè dal 19.6.2006).
L’art. 32-bis, come si vede, non fa alcuna distinzione tra norme originarie e norme che sono state sostituite e/o abrogate dalla legge 269. Se il legislatore avesse voluto fare un “distinguo”, avrebbe dovuto esternarlo, disponendo in modo diverso. Cioè avrebbe dovuto scrivere l’art. 32-bis in questo modo: “le disposizioni di cui al presente decreto, fatta eccezione per le modifiche apportate dalla legge 269/2006, si applicano ai procedimenti disciplinari promossi a decorrere dalla data delle sua entrata in vigore”.
4. Peraltro, è assurdo ipotizzare che il Legislatore che -come hanno affermato il P.G. e il CSM- ha inteso “correggere” gli “errori” contenuti nel testo originario del D. l.vo n. 109/06, non abbia voluto emendarli sin ab origine, consentendone invece la “sopravvivenza” per un lasso di tempo di circa......quattro mesi!!
5. Ma c’è di più, molto di più. Infatti, l’efficacia retroattiva delle norme introdotte dalla legge 269/2006 la si ricava, al di là del minimo dubbio, da altri univochi argomenti interpretativi, e cioè dal testo originario e dalla ratio del disegno di legge n. 635 (poi sfociato nella legge 269/06), dalla sua relazione introduttiva, a firma dei Ministri Mastella e Padoa Schioppa e, infine, dai lavori e dall’iter parlamentare di approvazione del testo definitivo.
Il disegno di legge n. 635/2006, infatti, venne presentato dai Ministri Mastella e Padoa Schioppa il 14 giugno 2006 -cioè prima dell’entrata in vigore del D. L.vo n. 109 del 23.2.2006- e il suo scopo -come risulta chiaramente dal tenore dell’art. 1- era quello di “sospendere l’efficacia delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109.......fino alla data del 1º marzo 2007.
La necessità di operare questa “sospensione”, poi, è chiarita dal Presidente della IIa Commissione referente
SALVI (Ulivo), il quale nella seduta del 4.7.2006 “rileva preliminarmente che il Governo ha optato per la sospensione dell'efficacia delle disposizioni contenute nei decreti legislativi 20 febbraio 2006 n. 106, 23 febbraio 2006, n. 109, e 5 aprile 2006, n. 160, di attuazione della legge delega di riforma dell'ordinamento giudiziario, piuttosto che per la loro abrogazione o per eventuali modifiche di merito. Ciò al fine di porre il Parlamento nelle condizioni di valutare - nei tempi opportuni - le soluzioni normative più idonee e più in grado di raccogliere il consenso di tutte le forze politiche”.
L’On.le Salvi ha anche cura di puntualizzare quanto segue:
“In merito al secondo dei decreti in questione, quello relativo alla responsabilità disciplinare del magistrato, il relatore rileva che, mentre l'esigenza di tipizzazione dell'illecito disciplinare è da tutti condivisa, sono state mosse svariate riserve alle modalità di tipizzazione, che rischiano di compromettere la libertà di azione del magistrato nonché all'obbligatorietà dell'azione disciplinare che, perseguendo il legittimo scopo di rendere effettiva la tutela del cittadino, rischia invece di vanificarla e di paralizzare il sistema. Si pone dunque - ad avviso del relatore - la necessità di affrontare il tema in modo aperto.”
Come risulta dalla relazione di presentazione del 14.6.2006, inoltre, le motivazioni del rinvio dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 109 poggiavano anche sul rilievo che “la concreta operatività del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, relativo alla riforma.... della disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati e della procedura per la loro applicazione......... richiede l’adempimento di numerose e complesse attività da parte del Consiglio superiore della magistratura.... Tali complesse attività di organizzazione e di gestione della riforma, che implicherà anche un’ampia e impegnativa riorganizzazione degli uffici rispettivamente interessati, richiedono manifestamente la presenza di un organo di governo della magistratura nella pienezza dei suoi poteri, in grado quindi, di fronteggiare tali non facili compiti. La scadenza del Consiglio attualmente in carica, che avrà luogo il 31 luglio 2006, con la conseguente necessità di provvedere alla elezione dei membri togati dell’organo, nonché alla elezione, da parte del Parlamento, di quelli laici, comporterà, viceversa, che l’Ordine giudiziario resterà privo di un governo autonomo nella pienezza dei suoi poteri. Da ciò la necessità del presente intervento normativo, volto a sospendere l’efficacia dei decreti legislativi sopra indicati in modo che la loro operatività coincida con la costituzione dell’organo di autogoverno in tutte le sue componenti ed in possesso della prima ma necessaria esperienza (articolo 1)”.
Nella relazione si sottolineavano, altresì, i “...problemi di..... un difficile assestamento dell’ufficio che, nella Procura generale presso la Corte di cassazione, ha il compito dell’azione disciplinare: basti dire che, con l’obbligatorietà dell’azione e la tipicizzazione degli illeciti disciplinari, si avrà, per un verso, la moltiplicazione del numero dei procedimenti mentre, per altro verso, l’estinzione di quelli non rispondenti alla tipologia della riforma, cioè un massiccio lavoro iniziale per la Procura generale e per la sezione disciplinare del Consiglio superiore; si avrà cioè un enorme sforzo organizzativo e gestionale, aggravato dai ridotti termini di durata delle varie fasi procedimentali; in definitiva uno sforzo oggi assolutamente insostenibile.”
Chiaro, dunque, era l’intento iniziale del Governo di “sospendere” l’entrata in vigore della riforma sugli illeciti disciplinari, per consentire tutte le modifiche che apparivano necessarie per correggerne gli errori e le incongruenze che erano state nel frattempo rilevate.
Nel corso dell’iter dei lavori, tuttavia, il Legislatore optava per una soluzione diversa: infatti, anziché procrastinare l’entrata in vigore del D. L.vo n. 109 al 31.3.2007 -com’era nelle iniziali intenzioni- preferiva risolvere tutte le problematiche (dopo che si era raggiunto un accordo sulle stesse), apportando al decreto n. 109 tutte le modifiche che erano necessarie per farlo finalmente “decollare”.
Alla luce di queste incontestabili circostanze di fatto, appare evidente che il Legislatore non ha inteso apportare, con la legge n. 269 del 24.10.2006, semplici modifiche ad una normativa sulla responsabilità disciplinare dei magistrati, che Egli riteneva già di per sé “in vigore” e già di per sé “idonea” a disciplinare l’intera materia, bensì ha inteso apportare TUTTE le MODIFICHE che apparivano necessarie e indispensabili per farla “decollare” in quello che riteneva dover essere il suo testo LEGITTIMO e DEFINITIVO.
E’ quindi assurdo ipotizzare che le norme che sono state “abrogate” o “modificate” dalla legge n. 269/2006 lo siano state a far data dal 24 ottobre 2006 anziché dal 19.6.2006, cioè dalla data di decorrenza dell’effettiva efficacia del D. L.vo n. 109.
In realtà, si deve ritenere che la volontà del Legislatore sia stata diametralmente opposta: e questo, si ribadisce, risulta anche dal tenore dell’art. 32-bis, introdotto dalla legge 269/06, che ha disposto, in modo esplicito, che il “nuovo” testo del D. L.vo n. 109/2006 (dunque: così come risultante dalle modifiche che venivano apportate dalla legge n. 269/06) dovesse retroagire alla data del 19 giugno 2006.
E, in effetti, una volta apportate tutte le modifiche che erano state ritenute necessarie (e sulle quali si era raggiunto un consenso al termine dell’iter parlamentare) non sussisteva più l’originaria necessità di “sospendere” l’entrata in vigore del D.L.vo n. 109 sino al 31.3.2007.
6. Tutte queste lineari considerazioni trovano puntuale conforto anche nell’iter dei lavori parlamentari.
Ad esempio, il Sen. Valentino nella seduta della IIa Commissione referente del Senato del 6.7.2006 osserva che “in riferimento al decreto n. 109..... la tipizzazione degli illeciti disciplinari, così come è stata attuata, si presta a molteplici critiche e necessita di numerose modifiche che suggeriscono di cautelarsi con la sospensione preventiva della disciplina attuale”.
7. In ogni caso, nella denegata ipotesi in cui le SS. UU. vogliano ritenere che la lettera l) dell’art. 3 del D. L.vo n. 109/2006 (cioè quella che il P.G. e il CSM hanno qualificato come un palese “errore” del legislatore) non sia stata abrogata retroattivamente, bensì solo dopo l’entrata in vigore della L. n. 269/2006, si dovrà necessariamente sollevare un’eccezione di incostituzionalità della norma, nei termini che saranno esposti nel successivo motivo di ricorso.

Quesito di diritto:
Si chiede se l’art. 3, lett. l), del D. L.vo n. 109/2006 debba ritenersi abrogato, anche in virtù dell’art. 32-bis, introdotto dalla legge n. 269/2006, a decorrere dal 19.6.2006, data di entrata in vigore della riforma sugli illeciti disciplinari dei magistrati, oppure dall’8.11.2006, data di entrata in vigore della legge 269/2006.

3° MOTIVO
Illegittimità costituzionale dell’art. 3, lett. l), del D. L.vo 23.2.2006 n. 109, per disparità di trattamento (art. 3 della Costituzione).
Nell’ipotesi in cui la Corte ritenga di condividere la tesi secondo cui l’art. 3, lett. l), del D.L.vo n. 109/06 è stato abrogato solo dall’8.11.2006, data di entrata in vigore della legge 269/06, si eccepisce l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 3 del D.L.vo n. 109/06 per violazione del canone di eguaglianza e di ragionevolezza, sancito dall’art. 3 della Costituzione.
Questi i motivi.
Come rilevano giustamente il CSM e il Procuratore Generale, “nell’esercizio delle sue funzioni” il magistrato deve essere (e apparire) “indipendente, terzo e l’imparziale”: si tratta di doti che sono sempre state “considerate, come da previsione costituzionale”, essenziali ai fini della valutazione della sua professionalità.
L’art. 1, comma 1°, del D.L.vo n. 109/06 conferma appieno questo principio, sancendo che tra i doveri primari di un magistrato vi è quello di “esercitare le funzioni con imparzialità.....”.
Orbene, l’art. 2, comma 1°, lettera a), del D. L.vo n. 109/2006 prevede come “illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni” il “comportamento del magistrato che, violando i DOVERI di cui all’art. 1, arreca INGIUSTO DANNO o INDEBITO VANTAGGIO ad una delle parti”.
Dunque, il magistrato che viola, nell’esercizio delle funzioni, il suo “dovere di imparzialità” (che ovviamente include il dovere di indipendenza e di terzietà) può essere disciplinarmente perseguito SOLO se dal comportamento sia derivato un danno ingiusto o un indebito vantaggio ad una delle parti.
Così stando le cose, appare del tutto ingiustificabile -e quindi lesivo del principio di ragionevolezza- il disposto dell’art. 3, lettera l, del D.L.vo 109/06 che -anche se non ne sia derivato un “danno ingiusto” o un “indebito vantaggio” a terzi- sanziona il comportamento dei magistrati che - addirittura al di fuori dell’esercizio delle funzioni- “compromettono la loro indipendenza, terzietà e imparzialità, anche sotto il profilo della sola apparenza”.
Non si giustifica, infatti, che sia disciplinarmente perseguito il magistrato che -addirittura al di fuori dell’esercizio delle funzioni!!!- “compromette la sua imparzialità, anche sotto il profilo dell’apparenza” -e questo anche se non ne è derivato danno o vantaggio a terzi- mentre il magistrato che viola l’obbligo primario di imparzialità, addirittura nell’esercizio delle funzioni, sia perseguibile soltanto se ha cagionato ad un terzo un danno ingiusto o un indebito vantaggio: questa discrasia normativa fa sì che al comportamento più grave venga riservato dal legislatore un trattamento più favorevole rispetto a quello riservato al comportamento meno grave.
Si eccepisce dunque l’incostituzionalità della norma, siccome rilevante in causa: il dr. Tosti, infatti, non ha sicuramente arrecato danno ingiusto o indebito vantaggio ad alcuno.

Quesito di diritto:
Si chiede se sia in tutto o in parte illegittimo, per violazione del diritto di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., l’art. 3, lett. l) del D.L.vo 109/2006, che sanziona come illecito disciplinare il comportamento al di fuori dell’esercizio delle funzioni del magistrato che, pur non avendo arrecato danno ingiusto o indebito vantaggio a terzi, compromette la propria indipendenza, terzietà e l’imparzialità, anche sotto il profilo dell’apparenza, sussistendo disparità di trattamento e difetto di ragionevolezza nei confronti del trattamento di maggior favore riservato dall’art. 2, lett. a), dello stesso decreto al comportamento del magistrato che, addirittura nell’esercizio delle funzioni, viola il dovere di imparzialità, ma non è tuttavia perseguibile né sanzionabile se non nelle ipotesi in cui abbia arrecato ad una parte un danno ingiusto o un indebito vantaggio.

4° MOTIVO
Violazione e/o falsa interpretazione e applicazione degli articoli 3, lett. l), ed 1, commi 2° e 3°, del D.L.vo n. 109/2006, nonché degli articoli 12 e 14 delle disposizioni preliminari al codice civile.
1. Prima dell’attuale regolamentazione, introdotta dal D.L.vo n. 19/2006, la responsabilità disciplinare dei magistrati era disciplinata da un’unica norma, l’art. 18 del R.D. Lgs. n. 511 del 1946, che disponeva, in modo del tutto generico e indeterminato, che “il magistrato che manca ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario, è soggetto a sanzioni disciplinari .....”
La formulazione dell’art. 18 del R.D.Lgs. del 1946 aveva suscitato delle critiche perché la sua assoluta genericità conferiva agli organi titolari dell’azione disciplinare una discrezionalità assoluta -tale da poter facilmente debordare nell’arbitrio- e perché, al contempo, pregiudicava il diritto dei magistrati di conoscere, preventivamente e con certezza, quali comportamenti fossero da ritenere corretti e quali scorretti, soprattutto in relazione all’esercizio dei diritti di rango primario, cioè garantiti dalla Costituzione e/o dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo.
Fu proprio a causa di queste obiezioni che il CSM sollevò un’eccezione di incostituzionalità dell’art. 18: eccezione che fu poi respinta dalla Consulta (sent. n. 100/1981) sul rilievo che l’art. 18 non comprimeva i diritti di libertà, ma ne vietata soltanto l’ “abuso”, cioè un “uso anomalo”.
Significativa è la circostanza che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo abbia condannato l’Italia per aver ingiustamente inflitto sanzioni disciplinari a magistrati che si erano associati a logge massoniche, rimarcando che i magistrati in questione avevano in realtà esercitato il diritto alla libertà di associazione garantito a qualsiasi cittadino dall'art. 11 della convenzione e che, per altro verso, l'art. 18 del R.D. Lgs. 31.5.1946 n. 511 era una norma di legge a contenuto del tutto generico (in essa non venivano cioè descritti e/o enunciati in modo neppure approssimativo i comportamenti che potevano integrare illeciti disciplinari), sicché ha ritenuto che l’art. 18 non potesse integrare un'ipotesi di valida ingerenza dello Stato nel diritto di libertà di associazione dei magistrati, difettandone il requisito della “prevedibilità”: “una norma è “prevedibile” -ha precisato la Corte Europea- soltanto “quando è redatta con abbastanza precisione per permettere ad ogni persona, avvalendosi se del caso di pareri illuminati, di regolare la propria condotta” (sentenza 2.8.2001, N.F. contro Italia, ricorso n. 37119/97; sentenza Grande Camera del 17.2.2004, Maestri contro Italia, ric. n. 39748/98).
2. Per ovviare a tutti questi inconvenienti -ed aderire alle richieste di “certezza del diritto” in materia di illeciti disciplinari dei magistrati- il Governo ha finalmente varato il decreto legislativo n. 109 del 23.2.2006 col quale si è sancito il principio, diametralmente opposto a quello del vecchio art. 18, della “tipizzazione” degli illeciti disciplinari: e questo in attuazione della delega contenuta nella legge 150/2005 (art. 1 comma 1, lett. f), relativa appunto alla “individuazione delle fattispecie tipiche di illecito disciplinare dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicazione.”
Per la precisione l’art. 1 ha ribadito, in modo necessariamente generico, quali fossero i “doveri” che gravano sui magistrati, sia nell’ambito dell’esercizio delle funzioni che al di fuori di esse, sancendo poi al terzo comma che la violazione di tali doveri costituiva illecito disciplinare “perseguibile” -cioè sanzionabile- “nelle ipotesi previste dagli artt. 2, 3 e 4”.
La “ratio” del D. L.vo n. 109 è dunque chiarissima (e sul punto il CSM è peraltro concorde): si è inteso cioè “tipizzare” le ipotesi di illecito disciplinare dei magistrati, ovviando così alla situazione di incertezza e di indeterminatezza che comprimeva, in precedenza, la sfera di libertà dei magistrati.
Dalla “tipizzazione” degli illeciti discende, come necessario corollario, che l’esercizio dell’azione disciplinare è divenuto oggi obbligatorio (art. 14) e che, di conseguenza, la mancata segnalazione di illeciti è divenuta, di per sé, un’ipotesi di illecito (cfr. lettere e), dd) ed ee) dell’art. 2).
Su tutti questi punti il CSM è concorde, come risulta da quanto scrive a pag. 10 della sentenza: “è assolutamente certo che il principio di tassatività che ha governato la materia disciplinare da giugno ad ottobre del 2006 (ma le cose non sono affatto cambiate dopo le modifiche della L. 269: ndr) vietava l’analogia e cioè l’integrazione delle fattispecie tipizzate con altre analoghe o equivalenti).
Né possono sussistere dubbi di sorta sul punto, dal momento che, come scritto nella scheda di lettura del Servizio Studi del Dipartimento di Giustizia della Camera dei Deputati, relativa al progetto di legge n. AC 1780, “il terzo comma dell’art. 1 del D. L.vo n. 109/2006 esprime nel modo più evidente il principio di tipizzazione: la norma seleziona infatti, tra le violazioni dei doveri previsti in via generale dai primi due commi, SOLO quelle integranti le fattispecie illecite descritte negli articoli 2, 3 e 4.
E’ dunque evidente che la legge n. 109/2006 è strutturata in questo modo: l’art. 1 enuclea, preliminarmente e in via necessariamente generica, quelli che sono i “doveri del magistrato”, sia nell’esercizio che fuori dell’esercizio delle funzioni; gli artt. 2, 3 e 4, invece, provvedono a “tipizzare” i comportamenti che il Legislatore ha ritenuto disciplinarmente “perseguibili”, perché (ovviamente) ritenuti in contrasto con i doveri del magistrato.
Questa interpretazione è convalidata dallo stesso Ministro Mastella che, nella sua relazione al progetto di legge, dichiara: “Al sistema disciplinare è dedicato il decreto legislativo n. 109 del 2006 che introduce due innovazioni di base, cioè la tipicizzazione degli illeciti e l'obbligatorietà dell'azione disciplinare....”.
In senso identico si sono espressi il Senatore DAVICO (“Condivisibile è anche la chiarezza con cui viene strutturato il sistema degli illeciti disciplinari che, in tal modo, dovrebbe diventare finalmente tassativo.....”) ed il Senatore VALENTINO (“La tipizzazione degli illeciti disciplinari appare infine all'oratore fondamentale per evitare l'intollerabile disparità di trattamento che si verifica quando la selezione delle condotte illecite si basa su una valutazione discrezionale che mina - come bene messo in luce dal senatore Buccico - la stessa terzietà del giudizio.”).
3. Ebbene, come sopra esposto, per poter pervenire alla condanna del dr. Tosti la Sezione Disciplinare ha fatto propria la tesi del P.G. e, dunque, ha affermato che, se pur era evidente che il comportamento concretamente contestato all’incolpato non poteva rientrare nella lettera l) dell’articolo 3 -e questo perché essa in realtà sanziona come illecito disciplinare “ogni comportamento che comprometta l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza”- purtuttavia questa norma poteva essere “legittimamente interpretata in modo estensivo” (sic!!), sino a ricomprendervi qualsiasi violazione del dovere, generico, previsto dal comma 2° dell’art. 1 e, dunque, sino a ricomprendervi “tutti i comportamenti che compromettono la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria”.
Questa “interpretazione” deve essere censurata e respinta, sia perché erronea, sia perché contraria ai canoni ermeneutici sanciti dagli articoli 12 e 14 delle disp. prel. al codice civile. Valga quanto segue.
4. Innanzitutto si ribadisce che l’art. 1, comma 2°, del D.L.vo n. 109/2006 è stato abrogato “retroattivamente” dalla legge n. 269/2006, sicché il CSM non poteva applicare al dr. Tosti una norma che più non esisteva.
Né ha alcun rilievo la circostanza, peraltro non vera, secondo cui (pag. 10 della sentenza) “con ogni probabilità la formulazione della lettera l).....costituisce il frutto di un ERRORE MATERIALE del legislatore, posto che tale formulazione riprende chiaramente -specie con riferimento al requisito dell’imparzialità- il primo comma dell’art. 1, che a sua volta riguarda l’esercizio delle funzioni, e non invece il secondo comma, che riguarda i comportamenti posti fuori dell’esercizio delle funzioni”.
In primo luogo, infatti, se fosse realmente vero che il legislatore del D. L.vo n. 109 era incappato in un “errore materiale” (ma non lo è), il CSM avrebbe dovuto prendere atto che il legislatore aveva poi emendato quell’errore con la legge n. 269, sicché la correzione dell’errore doveva necessariamente avere un’efficacia retroattiva: è infatti assurdo ipotizzare -come ha fatto il CSM- che possa essere fatto “rivivere” un errore che è stato appositamente emendato dal legislatore. Ancor più grottesco, poi, è che per “resuscitare” l’errore si sia ricorsi ad un’interpretazione chiaramente “analogica” e, quindi, “fuori-legge”!!!
5. In secondo luogo si eccepisce l’erroneità dell’interpretazione dell’art. 3, lett. l), alla luce del canone fissato dall’art. 12 preleggi, il quale impone all’interprete l’obbligo di attribuire alla legge il significato palesato dalle parole, secondo la loro connessione, e dall’intenzione del legislatore.
Se si fa corretto uso di questo canone, emerge in modo evidente che il legislatore, attraverso la riforma introdotta col D.L.vo n. 109, ha inteso distinguere “i doveri del magistrato” -che sono quelli elencati in modo generico nell’art. 1- dagli “illeciti disciplinari dei magistrati”, che sono invece quelli tassativamente tipizzati negli articoli 2, 3 e 4. Ciò risulta -come sopra evidenziato- dal tenore dell’ultimo comma dell’art. 1, il quale sancisce, appunto, che “le violazioni dei doveri di cui ai commi 1 e 2 costituiscono illecito disciplinare perseguibile nelle ipotesi previste dagli articoli 2, 3 e 4”.
E’ dunque evidente che gli illeciti disciplinari “perseguibili” sono solo quelli tassativamente previsti negli articoli 2, 3 e 4, e non quelli che derivano da qualsiasi ipotesi di violazione dei “doveri”, generici, descritti nei commi 1 e 2 dell’art. 1.
Se così non fosse, la “riforma” apportata col D L.vo n. 109 non avrebbe alcun senso: infatti, non vi sarebbe alcuna sostanziale differenza tra il precedente regime degli illeciti disciplinari, regolato in modo generico dall’art. 18 del R.D. Lgs n. 511/1946, e il “nuovo” regime.
Alla luce di queste considerazioni, la lettera l) dell’art. 3 va necessariamente interpretata secondo quello che è il suo palese significato letterale e secondo quella che era (ed è) la “ratio” perseguita dal legislatore: sanzionare, cioè, SOLO i comportamenti, tenuti al di fuori dell’esercizio delle funzioni, che “compromettevano l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza”, e non QUALSIASI comportamento, suscettibile di violare l’obbligo, generico, di “non compromettere la propria credibilità, il proprio prestigio o decoro o il prestigio dell’istituzione.
In altri termini, è palese che il rapporto che intercorre tra il “dovere” di “non compromettere la credibilità personale, il prestigio e il decoro”, previsto dall’art. 1, e i casi di illecito disciplinare, previsti dall’art. 3, è quello che intercorre tra “genere” e “specie”: il legislatore cioè, ha ritenuto, nell’esercizio della sua insindacabile discrezionalità, che tutte le fattispecie di illecito disciplinare, tipizzate nell’art. 3, contravvenissero al dovere, genericamente prescritto dal 2° comma dell’art. 1, di “non tenere comportamenti....che compromettevano la credibilità personale, il prestigio e il decoro etc.”
Nel caso che ci occupa, dunque, è evidente che il legislatore ha ritenuto, nell’esercizio della sua insindacabile discrezionalità, che il magistrato che tiene un comportamento smaccatamente “parziale”, anche se al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni, “compromette la sua credibilità personale,il suo prestigio e il suo decoro” e, dunque, deve essere disciplinarmente sanzionato.
Del tutto erronea, dunque, è la deduzione che il CSM sviluppa a pag. 9 della sentenza, laddove afferma che, “posto il principio della tassatività delle tipizzazioni stabilito dal terzo comma dell’art. 1 (e su questo si concorda: ndr) e posto che la lettera l) dell’art. 3 non fa riferimento a quei beni o valori o principi, quali la correttezza, l’equilibrio, il decoro ed il prestigio (anche su questo si concorda: ndr), la violazione del dovere previsto dal secondo comma dell’art. 1 dovrebbe restare priva di sanzione in quanto non inquadrabile in alcuna delle fattispecie tipizzate di cui all’art. 3”.
In realtà il CSM è incappato in un errore interpretativo madornale: il Legislatore, infatti, nel formulare la lettera l) dell’art. 3 (peraltro nella stessa formulazione contenuta nella legge delega!) ha ritenuto, con una valutazione certamente non sindacabile dal CSM, che i “comportamenti” ipotizzati nella lettera l) integrassero, di per sé, una “violazione dei doveri imposti dal 2° comma dell’art. 1”, così come peraltro la integrano tutti gli altri comportamenti elencati nelle altre lettere della medesima norma.
Ad esempio, chi può porre in dubbio che l’uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sé o per altri, sanzionato dalla lettera a) dell’art. 3, non comprometta la credibilità personale, il prestigio ed il decoro del magistrato e, quindi, integri un’ipotesi di violazione dei “doveri” imposti dall’art. 1, secondo comma?
Né sussiste -come sembra aleggiare il CSM- l’impossibilità di ipotizzare dei casi concreti in cui un magistrato, agendo al di fuori dell’esercizio delle funzioni, “tenga un comportamento che comprometta la sua immagine sotto il profilo dell’indipendenza, della terzietà e dell’imparzialità”: basterebbe considerare, ad esempio, il caso del magistrato che, chiamato a partecipare ad una giuria per l’elezione di una miss, favorisca in modo smaccato la figlia di un amico, compromettendo così la sua immagine di persona imparziale e, dunque, minando la “propria credibilità personale”. L’opinione pubblica, in effetti, sarebbe portata, in un caso del genere, a ritenere che un magistrato che si comporta in modo parziale al di fuori dell’ufficio sia propenso a farlo anche nell’esercizio delle funzioni.
E se questa è l’interpretazione corretta che si deve fornire dell’art. 3, lettera l), cioè della species, è ingiustificabile e contraddittorio che, partendo dalla “species”, se ne “allarghi” la portata sino a ricomprendervi il contenuto dell’intero “genus”, cioè di tutti i “doveri” sanciti dal comma 2° dell’art. 1!!!!
6. Ma c’è di più: l’interpretazione accolta dal CSM non è infatti “estensiva”, bensì analogica e, dunque, vietata dall’art. 14 delle preleggi, a mente del quale “le leggi....che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”.
Per delineare un valido criterio distintivo, infatti, la costante giurisprudenza della Cassazione ha sancito che un’interpretazione, per essere realmente “estensiva”, deve “limitarsi a ricondurre, sotto la norma interpretata, quei casi che solo apparentemente ne sembrano esclusi, ma che in realtà il legislatore, stando all’obiettiva ratio della norma medesima, ha inteso ricomprendervi” (Cass. civ., sez. lav., 3.6.1976 n. 2004). Per la Cassazione, dunque, giammai un’interpretazione “estensiva” può perseguire una “ratio” diversa o addirittura confliggere con la “ratio” alla quale il legislatore si è ispirato.
Ebbene, nel caso di specie è lapalissiano che il CSM, interpretando l’art. 3, lett. l), del D.L.vo n. 109/2006 come “comprensivo” del “dovere”, generico, sancito dal comma 2° dell’art. 1, ha finito per vanificare e, anzi, contraddire la “ratio” dell’intera “riforma” introdotta col D. L.vo n. 109: con questa “interpretazione”, infatti, il CSM ha di fatto ripristinato il “vecchio” regime dell’art. 18 del R.D. n. 511 del 1946, dal momento che ha “creato” una norma sanzionatoria generale, altrettanto generica e indeterminata come la precedente. L’art. 3 lett. l), è stato infatti “riscritto” dal CSM in questo modo: “ogni comportamento, ancorché legittimo, che comprometta la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria”, ripetendo pedissequamente il disposto dell’art. 1, comma 2°, con “buona pace” del testo realmente scritto dal Legislatore e della ratio perseguita.
Se per assurdo si dovesse ritenere lecita una siffatta “interpretazione”, tutte le ipotesi “tassative” di illecito disciplinare, contemplate dagli articoli 3 e 4, si tramuterebbero in ipotesi meramente “esemplificative”, con buona pace del disposto del 3° comma dell’art. 1 che dispone invece l’esatto contrario, e cioè che “le violazioni dei doveri.....costituiscono illecito disciplinare perseguibile nelle ipotesi previste agli articoli 2, 3 e 4”.
Dunque, l’interpretazione del CSM non può essere accolta, perché illegittima.
7. Nel caso specifico, peraltro, si raggiungono risultati a dir poco grotteschi: per effetto dell’interpretazione “estensiva”, propugnata dal CSM, il dr. Tosti si trova infatti ad essere stato condannato per comportamenti diametralmente opposti a quelli sanzionati dall’art. 3, lett. l).
Egli, infatti, null’altro ha fatto se non pretendere di essere processato da giudici che fossero “imparziali” sotto il profilo dell’ “apparenza simbolica”, ma -e questo è grottesco- è stato sanzionato dal CSM sulla base di una norma che stigmatizza comportamenti diametralmente opposti, cioè i comportamenti dei magistrati che “compromettono la loro imparzialità”, sicché dalla sentenza di condanna si dovrebbe ricavare la seguente, delirante, “massima”:
“compromette la propria imparzialità, anche sotto il profilo dell’apparenza, il magistrato che, nel corso di procedimenti penali a suo carico, avanza la pretesa di essere giudicato da giudici che siano, sotto il profilo dell’apparenza, imparziali, come garantitogli dall’art. 111 della Costituzione e dall’art. 6 della Convenzione sui diritti dell’uomo”.
E’ una vera follia: è come affermare che un cittadino-magistrato, che pretende di non essere sodomizzato, deve essere considerato un ....sodomizzatore!!!!
Non esiste, in realtà, alcun appiglio giuridico che autorizzi un giudice ad interpretare “estensivamente” una norma -come ha fatto il CSM- sino a renderla “applicabile” a fattispecie diametralmente opposte a quelli che sono il tenore letterale e la ratio della norma stessa.
8. Ma c’è di più: come ci si accinge a dimostrare nel motivo che segue, infatti, il CSM ha finito per “creare”, ex nihilo, una norma incostituzionale!!!

Quesito di diritto: si chiede se l’art 3, lett. l) del D.L.vo n. 109/2006 possa o meno essere interpretato sino a ricomprendervi il contenuto, generico, del dovere prescritto, a carico dei magistrati, dal comma 2° dell’art. 1 dello stesso D.L.vo.

5° MOTIVO
Illegittimità costituzionale dell’art. 3, lett. l), del D. L.vo 23.2.2006 n. 109, per disparità di trattamento (art. 3 della Costituzione).
Nella fantascientifica ipotesi che le SS.UU. avallino la sedicente interpretazione “estensiva” del CSM, si solleva l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 3, lett. l), del D. L.vo n. 109/2006 per i motivi che seguono.
I. Si evidenzia che il “dovere”, imposto ai magistrati dal comma 2° dell’art. 1, non si riferisce soltanto ai comportamenti tenuti “al di fuori dell’esercizio delle funzioni”, bensì -e in via primaria- ai comportamenti che i magistrati debbono tenere nell’esercizio delle funzioni. E, in effetti, la norma in questione dispone che “il magistrato, anche fuori dell’esercizio delle proprie funzioni, non deve tenere comportamenti.......”, dando dunque per implicita la premessa che questi comportamenti disdicevoli non debbono essere tenuti, in via primaria, nell’esercizio delle funzioni.
II. Si evidenzia, altresì, che l’art. 2, lett. a), del D.L.vo, riferibile agli illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni, sanziona “la violazione dei doveri di cui all’art. 1” e, dunque, sanziona anche la violazione del dovere imposto dal 2° comma. Tuttavia -ed è questa la discrasia- la violazione di tale dovere può integrare un illecito disciplinare SOLO nell’ipotesi che ne sia derivato “un ingiusto danno o un indebito vantaggio ad una delle parti”.
Siffatta limitazione, invece, non sussiste nell’ipotesi della lettera l) dell’art. 3, così come “interpretata” dal CSM: la violazione del dovere di cui al 2° comma dell’art. 1, infatti, verrebbe sanzionata in ogni caso, anche nell’ipotesi in cui non ne sia derivato (ed è questo il caso del dr. Tosti) alcun danno o alcun vantaggio a terzi.
III. Palese, dunque, sarebbe la disparità di trattamento tra le due norme: mentre, infatti, l’art. 2, lett. a) sanziona la violazione dell’obbligo di “non tenere comportamenti, ancorché legittimi, che compromettono la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria”, solo se sia stato arrecato un danno ingiusto o un vantaggio indebito a terzi, la lettera l) dell’art. 3 -così come “estensivamente interpretata” dal CSM- sanziona i medesimi comportamenti -peraltro ontologicamente meno gravi perché compiuti al di fuori dell’esercizio delle funzioni- in ogni caso e, dunque, anche se non sia stato arrecato un danno o un vantaggio a terzi.

Quesito di diritto:
Si chiede se sia in tutto o in parte illegittimo, per violazione del diritto di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., l’art. 3, lett. l) del D.L.vo 109/2006, che sanziona come illecito disciplinare il comportamento, al di fuori dell’esercizio delle funzioni, del magistrato che, pur non avendo arrecato danno ingiusto o indebito vantaggio a terzi, compromette la propria credibilità personale, il proprio prestigio e il proprio decoro o il prestigio dell’istituzione giudiziaria, sussistendo disparità di trattamento e difetto di ragionevolezza nei confronti del trattamento di maggior favore riservato, dall’art. 2, lett. a), dello stesso decreto, al comportamento del magistrato che, addirittura nell’esercizio delle funzioni, viola lo stesso dovere, ma non è tuttavia perseguibile né sanzionabile se non nelle ipotesi in cui abbia arrecato ad una parte un danno ingiusto o un indebito vantaggio.


6° MOTIVO
Omessa, insufficiente e manifesta contraddittorietà della motivazione circa punti e fatti controversi e decisivi per il giudizio, prospettati dalla parte e risultanti dagli atti processuali.
A) La linea difensiva dell’incolpato.
Il dr. Tosti si è difeso in giudizio eccependo (cfr. in particolare la memoria del 17.1.2007):
1°) che innanzitutto la lettera doveva essere letta e interpretata nel suo tenore integrale, e non attraverso estrapolazioni più o meno capziose;
2°) che l’accusa di essere stato “scorretto” nei confronti dei “giudici del Tribunale dell’Aquila” non stava né in cielo né in terra, dal momento che dal tenore della lettera e dal tenore di numerosi altri atti -che si aveva cura di riportare in memoria e di produrre in giudizio- risultava evidentissimo che le frasi censurate si riferivano ad una problematica che investiva l’intera Amministrazione Giudiziaria, cioè TUTTI i giudici italiani (ivi incluso il dr. Luigi Tosti) e non i soli giudici dell’Aquila: era evidente, infatti, che il “rifiuto” del dr. Tosti “di farsi processare” (cioè di presenziare ai processi, com’era peraltro suo insindacabile diritto) era legato alla presenza generalizzata dei crocifissi nelle aule giudiziarie italiane ed alla contestuale assenza degli altri simboli religiosi: il che, a suo giudizio e a giudizio della Cassazione, della Corte Costituzionale e dello stesso CSM, violava il principio supremo di laicità e, quindi, il suo diritto costituzionale di essere giudicato da giudici “laici”, cioè “visibilmente imparziali”;
3°) che l’incolpazione era palesemente infondata in relazione alla prima frase “censurata”, dal momento che essa nient’altro era se non lo speculare “rovescio della medaglia” della frase che la precedeva, frase che però non era stata censurata e, quindi, era stata ritenuta del tutto legittima: e, in effetti, il dr. Tosti aveva esordito “ribadendo che nella sua qualità di magistrato si rifiutava di violare il suo obbligo di essere e di APPARIRE imparziale, perché riteneva di dover rispettare sia il comma 2° dell’art. 111 della Costituzione che l’art. 6, 1° comma della Convenzione sui diritti dell’uomo e, pertanto, si rifiutava di calpestare il diritto dei cittadini non cattolici e dei cittadini non credenti di essere giudicati da giudici “VISIBILMENTE imparziali”, sicché era logico è inevitabile che “nella sua qualità di imputato ribadisse che si rifiutava di farsi processare da giudici partigiani che si identificavano platealmente nei crocifissi cattolici appesi sopra la loro testa, e non nei simboli neutrali dell'unità nazionale che, guarda caso, erano accuratamente estromessi dalle aule giudiziarie italiane: tanto più in processi nei quali questi giudici di parte cattolica -che cioè accettavano di far parte di un'Amministrazione connotata di cristianità- erano chiamati ad esprimere un giudizio di colpevolezza o di innocenza in relazione ad un suo comportamento che era diametralmente opposto, cioè di rifiuto radicale di giudicare in nome di quel “loro” idolo”);
4°) che le frasi non erano disciplinarmente censurabili, perché erano state scritte dal Tosti, nella sua qualità di imputato e, quindi, nell’esercizio del suo diritto costituzionale di difesa -riconosciutogli anche dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo- senza che sussistesse alcuna “deroga di legge” che limitasse questo suo diritto inviolabile: e, in effetti, “la richiesta di rimozione dei crocifissi mirava a precostituire la prova documentale del rifiuto che veniva opposto dal Ministro...presupposto necessario ai fini del conflitto di attribuzione, che intendeva nuovamente caldeggiare nel giudizio d’appello e in quello dinanzi al GUP”;
5°) che le frasi incriminate descrivevano poi la pura e semplice VERITA’ della situazione esistente nelle aule dei Tribunali italiani: essendo stati rispettati i requisiti della pertinenza e della continenza, esse non potevano avere alcuna valenza “diffamatoria”;
6°) che le frasi mutuavano e ribadivano, in modo pedissequo, concetti giuridici affermati addirittura dalla Cassazione penale, dalla Corte Costituzionale italiana, dalla Corte svizzera, dalla Corte tedesca e, dulcis in fundo, dallo stesso CSM: era dunque grottesco essere “incriminati” per aver espresso concetti ed opinioni giuridiche affermate da Giudici supremi;
7°) che il termine “partigiani” -che era stato attribuito a TUTTI i giudici italiani e non ai soli giudici dell’Aquila- non sottintendeva minimamente che i giudici “fossero cerebralmente” “parziali” nei confronti del cittadino dr. Luigi Tosti (solo ad un idiota potrebbe venire in mente una simile congettura), bensì che essi “apparivano” “parziali” -nei confronti di qualsiasi cittadino “giustiziabile”- a causa dell’esposizione di un simbolo “partigiano” -cioè “di parte” (si tratta di due sinonimi)- qual’è indubbiamente il crocifisso: il che, all’evidenza, si sarebbe verificato con qualsiasi altro simbolo “partigiano”, anche di natura non religiosa (ad esempio: la svastica, il gagliardetto del Milan);
8°) che le frasi censurate, peraltro, si limitavano a ripetere concetti che erano stati scritti, nella stessa identica forma e con le stessissime parole, in numerosissimi altri scritti del dr. Tosti, senza che nessuno avesse obiettato qualcosa: il comportamento della Pubblica Amministrazione appariva dunque contraddittorio e manifestamente persecutorio, in contrasto con l’obbligo della Pubblica Amministrazione di essere coerente e imparziale;
9°) che le frasi incriminate erano state poi deliberatamente ripetute nella memoria indirizzata al GUP dell’Aquila, al Ministro e al Procuratore Generale, ma era stata omessa la doverosa attivazione di altro procedimento disciplinare;
10°) che la circostanza che il dr. Luigi Tosti fosse l’ UNICO magistrato italiano che “si rifiutava di identificarsi nel simbolo "partigiano" del crocifisso” -cioè di calpestare il diritto fondamentale dei cittadini di essere giudicati da giudici "visibilmente imparziali"- non poteva essergli addebitata né, tantomeno, poteva essere considerata come un’offesa contro i giudici italiani che, invece, preferivano seguitare a giudicare sotto l’incombenza di un tale simbolo partigiano;
11°) che, infine, la seconda frase ("Ribadisco che non accetto di essere processato da giudici che sono indotti a condannarmi per non correre il rischio, in caso contrario, di essere sottoposti a procedimenti disciplinari da parte del Ministro di Giustizia, nonché al linciaggio pubblico da parte delle più Alte cariche istituzionali, politiche e "religiose" dello Stato Cattolico Italiano") doveva essere necessariamente letta assieme alle ben cinque pagine, immediatamente successive, nelle quali si dava contezza delle “incredibili, vigliacche, allucinanti e vergognose intimidazioni, minacce ed insulti, perpetrati col coraggio del branco, di cui era rimasto vittima il giudice del Tribunale dell’Aquila dott. Mario Montanaro, anche da parte di illustri politici che rivestivano alte cariche istituzionali, per aver egli osato affermare che i crocifissi dovevano essere rimossi dagli uffici pubblici”. Era dunque evidente che il dr. Tosti con tale frase “aveva inteso esprimere, nella sua qualità di imputato e con parole che non integravano turpiloquio, bestemmia o vilipendio, il legittimo disappunto per le interferenze nei confronti dei magistrati e la legittima preoccupazione che i giudici che dovevano giudicarlo non fossero sereni, ma condizionati da ciò che era accaduto al giudice Montanaro: essi, infatti, dovevano necessariamente decidere la stessa identica questione decisa dal dr. Montanaro, sicché rischiavano di essere sottoposti ad ispezioni ministeriali, a minacce di morte, ad intimidazioni, ad insulti e al linciaggio pubblico da parte dei politici italiani, delle Alte cariche istituzionali e dei vertici della Chiesa e del Vaticano, se avessero osato affermare che i crocifissi dovevano essere rimossi dai tribunali.
B) La motivazione della condanna.
Il CSM ha completamente obliterato tutte le eccezioni e le argomentazioni difensive del dr. Tosti Luigi, nonché i documenti che le supportavano, dando concreta dimostrazione, nella migliore delle ipotesi, di un totale disprezzo nei suoi confronti e nei confronti dei suoi diritti costituzionali. Queste che seguono sono le “motivazioni” che sono state addotte dal CSM per supportare la condanna dell’agnello dr. Luigi Tosti.
Innanzitutto il CSM ha premesso che non era suo compito stabilire se le idee e le opinioni del dr. Tosti sulla legittimità o meno dell’affissione del crocifisso fossero esatte, puntualizzando che ciò che si doveva valutare in sede disciplinare era soltanto il modo in cui l’incolpato si era espresso nella lettera del 5.9.2006I.
Ciò premesso, ha ritenuto che nella lettera erano stati espressi alcuni concetti che travalicavano il significato del merito della questione sottostante.
In particolare, il CSM ha ritenuto che “il rifiuto di farsi processare è già di per sé frase offensiva, specie se si accompagna alla denigrazione dell’organo giudicante”. Infatti, “se un comportamento di rifiuto APRIORISTICO di farsi processare da giudici ritenuti di parte proviene da un magistrato, ben può porsi -come nel caso di specie- un problema di deontologia disciplinare. Un magistrato deve ben sapere che non può legittimamente difendersi “dal” processo o “fuori” dal processo denigrando l’organo giudicante, nella specie dinanzi al Ministro di Giustizia. Egli ha il dovere deontologico di difendersi “nel” processo e solo in questo, secondo le regole procedurali, a pena di screditare non soltanto i singoli magistrati che sono tenuti a giudicarlo, ma l’istituzione giudiziaria nel suo complesso”.
Nella specie, il dott. Tosti ha voluto porre in dubbio, con modalità che non possono essere condivise, che i giudici aquilani fossero di parte in quanto condizionati dal crocifisso affisso nell’aula giudiziaria. Davvero non si comprende come e in che modo essi si possano IDENTIFICARSI nel crocifisso.
Essi sono stati accusati di giudicare non “nel nome del popolo italiano e in conformità alla Costituzione verso la quale hanno dichiarato osservanza e fedeltà. Essi sono stati accusati di giudicare in nome del loro “idolo” e di essere indotti a condannarlo per non correre il rischio di essere sottoposti a procedimenti disciplinari, nonché ad un “linciaggio pubblico” da parte di autorità politiche e religiose. Trattasi.....di un comportamento......lesivo dell’autorità dei magistrati aquilani e dello stesso Ministro di Giustizia, che avrebbe -non si sa in che modo- indotto i primi alla condanna per evitare rischi di azioni disciplinari...”.
Questa motivazione presenta eclatanti difetti, omissioni, contraddittorietà e falsificazioni ideologiche.
C) Le censure che si muovono.
1°) Prima censura.
Per annichilire, polverizzare, sbriciolare, incenerire e nebulizzare la tesi del CSM secondo cui “il rifiuto aprioristico dell’imputato Tosti di farsi processare” deve essere considerato una “manifestazione di disprezzo generalizzato e di “denigrazione” nei confronti dei giudici aquilani” è sufficiente una banalissima considerazione logica, che sarebbe facilmente intuibile anche da una persona decapitata: e cioè che il dr. Luigi Tosti non ha mai tenuto un “comportamento di rifiuto aprioristico di farsi processare dai giudici” ma, al contrario, ha manifestato, sempre, LA PIENA DISPONIBILITA’ a farsi processare da qualsiasi giudice italiano -sia esso dell’Aquila, di Canicattì, di Dèsio, di Ula Tirso o di Cairo Montenotte- purche’ venissero rimossi i crocifissi, oppure aggiunti altri simboli religiosi.
La postulazione della tesi che il “rifiuto aprioristico del dr. Tosti di farsi processare” sottintenda un “disprezzo” nei confronti dei giudici aquilani o di tutti i giudici italiani, è dunque frutto della fervida fantasia del CSM: anche un persona decapitata, in effetti, capisce che il rifiuto di farsi processare, cioè di “non presenziare alle udienze” dipendeva -e dipende tuttora- non dalla “partigianeria cerebrale” dei giudici aquilani (cosa squisitamente assurda e inconcepibile) ma solo e soltanto dall’addobbo delle aule giudiziarie italiane, cioè dal fatto che viene in esse esposto dal Ministro di Giustizia il SOLO crocifisso: prova ne è che il dr. Tosti, se fossero stati rimossi i crocifissi o fossero stati aggiunti altri simboli, avrebbe tranquillamente presenziato alle udienze dinanzi a quegli stessi identici giudici che il CSM vorrebbe contrabbandare per “magistrati prevenuti contro il Tosti, perché di fede cattolica” (una follia).
Da queste oggettive circostanze di fatto, desumibili dalla lettera e da tutti i documenti difensivi prodotti in giudizio, si arguisce che la “partigianeria”, di cui il dr. Tosti ha parlato e parla, non è la “partigianeria cerebrale dei giudici”, bensì la “partigianeria simbolica dei crocifissi”, che riverbera i suoi effetti sull’imparzialità “apparente” -cioè simbolica- dei giudici, facendo in modo che essi (ivi incluso il dr. Luigi Tosti), quando operano all’interno di un’amministrazione giudiziaria connotata di cristianità cattolica, NON APPAIANO più “imparziali”, “neutrali” ed “equidistanti” nei confronti dei “giustiziabili”, bensì “PARTIGIANI”, cioè di parte.
In altre parole, se la presenza del SOLO crocifisso fa sì che i giudici “NON siano neutrali, imparziali ed equidistanti” (e non lo dice solo il dr. Tosti, ma lo dicono i supremi giudici sopra indicati) se ne ricava il sillogismo che “la presenza del SOLO crocifisso fa sì che i giudici “siano NON-neutrali, NON-imparziali e NON-equidistanti”.
E se i giudici sono “NON-imparziali” a causa della presenza del SOLO crocifisso, questo significa che essi sono “parziali” (due negazioni infatti si annullano): e questo a causa della presenza del SOLO crocifisso. E se i giudici sono “parziali” a causa della presenza del SOLO crocifisso, con un pizzico di fantasia e facendo magari ricorso alla consultazione del dizionario dei sinomini e contrari del Devoto Oli, si può anche osare affermare che i giudici divengono “partigiani” a causa della presenza del SOLO crocifisso nelle aule giudiziarie (il termine “partigiani”, oltre ad essere un sostantivo che indica gli avversari politici degli antenati storici dell’On.le Storace, è anche un aggettivo che, secondo il devoto Oli, è sinonimo di “parziale”).
Ma c’è di più. Il dr. Tosti ha infatti manifestato la disponibilità a presenziare alle udienze ANCHE in presenza del crocifisso, purché venissero esposti gli altri simboli religiosi: e questo perché, com’è evidente, l’esposizione degli altri simboli avrebbe eliso la violazione del principio di laicità, facendo sì che i giudici NON si IDENTIFICASSERO più in un SOLO simbolo.
Tutte queste argomentazioni giuridiche sono state affermate dalla Cassazione penale, dalla Corte Costituzionale italiana, dalla Corte Costituzionale tedesca, dalla Corte Costituzionale svizzera, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e, dulcis in fundo, dal Consiglio Superiore della Magistratura (nella precedente “formazione”), e non sono dunque una fantasiosa “invenzione giuridica” del dr. Luigi Tosti che, sino a prova contraria, è e resta l’UNICO -tra i i circa 9.000 GIUDICI italiani- che chiede il rispetto della Costituzione italiana, rifiutandosi anche di calpestarla.
In ogni caso, se anche si trattasse di opinioni giuridiche non condivise dal CSM, ciò non avrebbe potuto esser posto a supporto della condanna disciplinare. Infatti, se il CSM non condivide che un magistrato sostenga la tesi che è la Terra che gira attorno al Sole, e non viceversa, non per questo lo potrebbe condannare al carcere: salvo che -e l’epilogo di questo processo in realtà alimenta fortissimi sospetti- non si tratti della Sezione Disciplinare della Santa Inquisizione della Magistratura.
Se, dunque, il dr. Tosti sostiene la tesi giuridica che la presenza dei SOLI crocifissi nuoce alla laicità delle istituzioni e fa sì che i funzionari “appaiano”, agli occhi dei cittadini amministrati, “partigiani”, cioè “parziali”, non per questo lo si può condannare.
D’altra parte, la condanna che il CSM ha inflitto contraddice, insanabilmente, la premessa da cui parte, e cioè che “non era suo compito entrare nel merito della fondatezza o meno delle idee e delle opinioni del Tosti circa la legittimità del crocifisso”: la condanna che è stata inflitta, infatti, si fonda proprio sulla censura apodittica delle espressioni “partigiani”, “parziali”, “che si identificano nei crocifissi”, senza però considerare e vagliare le “motivazioni giuridiche” che le supportano.
In altre parole, se il dr. Tosti afferma, in una lettera, che “i magistrati che, con violenza e senza consenso, penetrano coi loro membri gli orifizi anali degli imputati, sono degli stupratori”, non per questo può essere incolpato e condannato disciplinarmente con la “motivazione” che “affermare che “magistrati....sono degli stupratori” è una frase offensiva”.
Se il CSM è poi “sconvolto” dalla circostanza che “non è in grado di comprendere come e in che modo i giudici si possano in concreto “identificare” nel simbolo della religione cattolica”, anche questo non è un motivo per infliggere al dr. Tosti una condanna disciplinare: semmai il CSM potrà dissentire dall’opinione giuridica del Tosti, appioppandogli la qualifica di “incompetente in materie giuridiche”.
Ed ovviamente il dr. Tosti Luigi assentirebbe di buon grado a questo giudizio di negativo, considerando il livello tecnico di chi lo esprime.
Non a caso, infatti, i giudici della Corte Costituzionale di una nazione del terzo mondo, la Germania (Bundes VerfassungsGericht) con sentenza 16 maggio 1995 hanno sentenziato che "Il diritto di libertà religiosa garantito dalla Legge fondamentale non assicura soltanto la facoltà di partecipare agli atti di culto in cui si esprime il credo di appartenenza, ma anche la facoltà di tenersi lontani dalle attività e dai simboli implicati nell'esercizio del culto medesimo. Al riguardo occorre distinguere tra i luoghi che sono sottomessi al diretto controllo statale, e quelli che sono lasciati alla libera organizzazione della società. Lo Stato, nel primo caso, è obbligato a proteggere l'individuo dagli interventi o dagli ostacoli che possono provenire dai seguaci di altre fedi o di gruppi religiosi concorrenti con quello di appartenenza. Anche quando lo Stato collabora con le confessioni religiose, esso non può pervenire ad una IDENTIFICAZIONE con ALCUNA di QUESTE. Confliggono con questo diritto garantito dall'art. 6 Abs. 2s.i della Legge fondamentale le prescrizioni dello Stato della Baviera e le decisioni assunte in forza di legge, che impongono l'affissione del crocifisso in tutte le aule scolastiche delle scuole popolari."
Il che conforta lo “sconcerto” dei sei giudici della Corte Disciplinare del CSM, che non sanno capacitarsi di “come e in che modo i giudici possano IDENTIFICARSI nei simboli”.
Peraltro anche i giudici del Tribunale federale della Svizzera hanno confortato le strampalate tesi del dr. Tosti, affermando con sentenza 26.9.1990 che "La laicità dello Stato si riassume in un obbligo di neutralità che impone allo Stato di astenersi negli ATTI PUBBLICI, da qualsiasi considerazione confessionale, suscettibile di compromettere la libertà dei cittadini in una società pluralista. L'esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole elementari non adempie alle esigenze di neutralità previste dall'art. 27 cpv 3 della Costituzione".
Concludendo: se “i giudici non sono neutrali a causa dell’esposizione del SOLO crocifisso” -come affermano i giudici svizzeri, tedeschi, la cassazione penale e lo stesso CSM- è forse un “turpiloquio” affermare che “i giudici sono non-neutrali e, quindi, “parziali”, ovverosia “partigiani”, a causa dell’esposizione del SOLO crocifisso”???
Suvvia, cari Lupi, inventatevi qualche altro pretesto meno ridicolo per condannare gli agnelli.
Ma non è tutto.
Si deve infatti rilevare che il significato dell’espressione “mi rifiuto di farmi processare” allude, e può alludere, soltanto alla volontà del dr. Tosti di non presenziare ai dibattimenti a causa della presenza dei crocifissi e della contestuale assenza degli altri simboli religiosi: il rifiuto categorico e “aprioristico”, congetturato dal CSM, è quanto di più strampalato si possa concepire. In che cosa dovrebbe consistere? Forse se un imputato apre la bocca e dice: non mi faccio processare da quei giudici, il processo a suo carico si interrompe o si sospende, sino a che egli....... non cambia idea??
Quello che il CSM scrive è offensivo dell’intelligenza e della professionalità del dr. Tosti: egli, infatti, non è né imbecille né incompetente, al punto tale da non sapere che l’unico strumento giuridico per tentare di sottrarsi al giudizio di ben determinati giudici è l’istanza di ricusazione. Istanza di ricusazione che, significativamente, il dr. Tosti non si è mai sognato di avanzare nei confronti di nessun giudice aquilano, non sussistendone il benché minimo motivo.
L’imputato dr. Tosti si è soltanto rifiutato di presenziare ai dibattimenti, com’era suo insindacabile diritto (gli imputati non hanno l’obbligo di presenziare al dibattimento), perché ha ritenuto di dover salvaguardare i suoi diritti di rango costituzionale: se lo Stato italiano non fosse uno Stato “razzista”, e cioè lo avesse autorizzato ad esporre la menorà degli sporchi ebrei a fianco del sacro crocifisso della Superiore Razza Cattolica, il dr. Tosti avrebbe presenziato, cioè non si sarebbe rifiutato di farsi processare.
Edificante, dunque, è il fatto che il CSM si sia fatto paladino dei “razzisti” per aiutarli nell’opera persecutoria e criminale contro la vittima: complimenti!!! Complimenti!!!! Complimenti!!!! Complimenti!!!!
L’erroneità del significato attribuito alla frase incriminata emerge anche dalla circostanza che il dr. Tosti, come risulta dal testo della lettera, ha chiesto al Ministro la rimozione dei crocifissi o l’aggiunta degli altri simboli “nella sua duplice qualità di magistrato e di imputato”. Nella sua qualità di magistrato, poi, il dr. Tosti ha “ribadito (e ribadire in lingua italiana significa “ripetere quello che già si è detto”) che si rifiutava di violare il suo obbligo giuridico di essere e di apparire imparziale, perché riteneva di dover rispettare sia il comma 2° dell'art. 111 della Costituzione che l'art. 6, 1° comma, della Convenzione sui diritti dell'Uomo e, pertanto, si rifiutava di calpestare il diritto dei cittadini non cattolici e dei cittadini non credenti di essere giudicati da giudici "visibilmente imparziali". La frase successiva, dunque, nessun altro senso logico può avere, se non quello che “nella sua qualità di imputato non cattolico e non credente egli si rifiutava di veder calpestato il suo diritto di essere giudicato da giudici “visibilmente imparziali”. Se, infatti, nella prima frase il dr. Tosti si cala nelle vesti di “giudice” e giustifica il suo rifiuto di non tenere le udienze (in atto già da un anno) con l’esigenza di “apparire imparziale” nei confronti degli imputati (si tratta di un obbligo di natura costituzionale), nella frase successiva, quando si cala nelle vesti di “imputato”, è ovvio che il motivo del suo rifiuto di presenziare alle udienze non possa essere che quello, speculare, di “evitare di essere giudicato da giudici che non sono visibilmente imparziali”.
E un giudice che “non è visibilmente imparziale” -secondo la logica e secondo la lingua italiana- è necessariamente un giudice che “è visibilmente parziale”, cioè un giudice che è -dal punto di vista dell’ “apparenza simbolica”- “partigiano” (nel dizionario dei sinonimi e contrari del Devoto-Oli l’aggettivo “partigiano” è sinonimo di “parziale”).
Dunque la frase incriminata, rapportata alla frase che la precede, non può avere il significato che le è stato assurdamente attribuito dal CSM, bensì quello che “il dott. Tosti, nella sua qualità di imputato ribadiva” (cioè “ripeteva” quello che già aveva fatto) “che si sarebbe rifiutato di farsi processare da giudici partigiani sotto il profilo dell’apparenza “simbolica” (e non “cerebrale”, come assurdamente ritenuto dal CSM) cioè da giudici che si identificavano platealmente nei crocifissi cattolici appesi sopra la loro testa, e non nei simboli NEUTRALI dell’unità nazionale che, guarda caso, erano accuratamente estromessi dalle aule giudiziarie italiane”.
Ma non è tutto: il dr. Tosti, infatti, ha avuto cura di puntualizzare che il “motivo” per il quale i giudici apparivano di “parte cattolica”: essi, infatti, lo divenivano solo a livello di apparenza simbolica, e cioè perché “accettavano di far parte di un’Amministrazione che, a causa dell’esposizione del crocifisso, appariva connotata di cristianità.
Questa frase chiarisce dunque il concetto in modo inequivocabile e non sottintende, dunque, l’assurda ed erronea deduzione fatta dal CSM, e cioè che il Tosti abbia accusato i giudici dell’Aquila di “essere di parte cattolica”, cioè di parteggiare per i cattolici e, dunque, di essere prevenuti nei suoi confronti. Per annichilire questa fantasiosa deduzione è sufficiente considerare che il dr. Tosti era disponibilissimo a farsi processare da qualsiasi giudice dell’Aquila, purché venissero tolti i crocifissi da tutte le aule giudiziarie, oppure aggiunti propri simboli. Se lui avesse sostenuto che “quei” giudici erano prevenuti nei suoi confronti, perché cattolici, l’assenza dei crocifissi o la presenza di altri simboli non gli avrebbe giovato.

2°) Seconda censura. Per annichilire, polverizzare, sbriciolare, incenerire e nebulizzare l’altra tesi del CSM, secondo cui “un magistrato deve ben sapere che non può legittimamente difendersi “dal” processo o “fuori” dal processo denigrando l’organo giudicante, nella specie dinanzi al Ministro di Giustizia” e che “Egli ha il dovere deontologico di difendersi “nel” processo e solo in questo, secondo le regole procedurali, a pena di screditare non soltanto i singoli magistrati che sono tenuti a giudicarlo, ma l’istituzione giudiziaria nel suo complesso”, basta considerare che il dr. Tosti -come risulta chiaramente dalla lettera stessa e dalle argomentazioni difensive dell’incolpato, tutte diligentemente trascurate dal CSM- si è in realtà difeso “nel processo”, spendendo in modo esplicito la qualifica di “imputato”.
La mistificazione operata dal CSM sul punto è a dir poco sconcertante.
Si consideri, infatti, che il dr. Luigi Tosti ha avuto cura di “qualificarsi”, nell’esordio della lettera “incriminata” come “cittadino italiano imputato nei procedimenti penali nn. 2366/05, 3188/05, 3373/05, 3800/05R.G., 78/2006 e 194/2006 Mod. 21 P.M. Tribunale de L'Aquila e nei procedimenti riuniti nn. 637 e 638/2005 R.G. Tribunale de L'Aquila”, sicché è ben chiaro che il suo “rifiuto di farsi processare” -cioè di presenziare alle udienze che si sarebbero dovute tenere in quei ben determinati processi- integrava una vera e propria questione di rilevanza processuale, tant’è che essa è stata dedotta in via preliminare con le memorie che sono state prodotte in questo giudizio e di cui, ovviamente il CSM non ha tenuto conto.
Il CSM è dunque incappato in errore motivazionale allorché ha affermato che un IMPUTATO, che inoltra al Ministro di Giustizia una lettera con la quale lo invita ad ELIMINARE un OSTACOLO che IMPEDISCE la PROSECUZIONE di ben determinati PROCESSI a suo carico, preannunciandogli che, in caso contrario, sarebbe costretto a rifiutarsi di presenziare alle udienze per evitare la lesione di suoi diritti primari, non si difende “nel” processo, ma “si difende “dal” processo e “fuori” dal processo.
E, in effetti, la questione posta dal dr. Tosti al Ministro non diverge affatto dal caso dell’imputato, portatore di handicap, deciso dalla Cassazione penale, Sez. III, con la sentenza 17.11.2001, n. 3376, di cui più diffusamente si parlerà in prosieguo. Si ricorda che questo imputato, privo di entrambi gli arti inferiori, inoltrò anche lui una lettera con la quale invitò le autorità competenti ad eliminare le barriere architettoniche esistenti nel tribunale dove doveva essere processato, preannunciando che, in caso contrario, si sarebbe rifiutato di farsi processare, cioè di comparire per difendersi. Ebbene, i giudici di merito si disinteressarono altamente della “questione” posta da questo imputato, processandolo dunque “in contumacia”. La Cassazione, però, ha annullato l’intero giudizio, affermando che la sua assenza era “giustificata”, perché era onere delle autorità competenti rimuovere le barriere architettoniche per assicurargli di accedere all’aula dibattimentale col rispetto della sua dignità e dei suoi diritti di eguaglianza e non discriminazione.
Ebbene, il dr. Luigi Tosti aveva proposto al Ministro una questione sostanzialmente identica, già nell’anno precedente. Infatti, con lettera del 29.9.2005 egli invitò il Ministro Castelli a rimuovere i crocifissi dalle aule di giustizia di tutt’Italia, o ad aggiungere tutti gli altri simboli religiosi, preannunciando che, in caso contrario, sarebbe stato costretto a rifiutarsi di farsi processare dai giudici del tribunale dell’Aquila, presso cui pendeva un procedimento penale. Il Ministro Castelli non rispose e il dr. Tosti inoltrò ai giudici del Tribunale la memoria prodotta sub doc. n. 3, con la quale, dopo aver dato atto che il Ministro non aveva ottemperato alle sue richieste, li invitò a sollevare un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale, preannunciando che, in caso contrario, si sarebbe rifiutato di farsi processare, cioè se ne sarebbe andato. Il tribunale non accolse la richiesta e il dr. Tosti se ne andò, cioè “si rifiutò di farsi processare”, anche se, materialmente, non esisteva in quell’aula alcun crocifisso (circostanza, questa, del tutto irrilevante ai fini del rispetto del principio di laicità, come sentenziato dalla Cassazione penale nella sentenza Montagnana 439/2002).
Il dott. Tosti, ovviamente, dedusse nei motivi di appello (al pari dell’handicappato) la nullità dell’intero dibattimento di primo grado e, peraltro, ripropose la stessa identica questione preliminare dinanzi ai giudici di appello.
Ed è in quest’ambito che si colloca la lettera che il Ministro Mastella ha censurato. Con questa lettera, infatti, il dr. Tosti null’altro ha fatto, se non reiterare quello che aveva fatto l’anno precedente: cioè invitare il “nuovo” Ministro di Giustizia Mastella a rimuovere i crocifissi o ad aggiungere altri simboli religiosi, non a caso “ribadendogli” (nella lingua italiana questa parola significa “reiterare”, “ripetere”) che, in caso contrario, sarebbe stato costretto a “rifiutarsi di farsi processare da giudici partigiani etc.” nei processi pendenti dinanzi al GUP ed alla Corte di Appello dell’Aquila.
Non avendo il Ministro Mastella ottemperato all’invito e, anzi, avendone tratto lo spunto per attivare questo delirante procedimento disciplinare, il dr. Tosti inoltrava al GUP la memoria prodotta come documento n. 5, con la quale ripeteva -per la terza volta- la stesso identico invito a sollevare un conflitto di attribuzione, avendo cura di ripetere, filo per filo e parola per parola TUTTE le frasi “incriminate” dal Ministro Mastella. Non avendo il GUP aderito alla richiesta, il dr. Tosti “si rifiutava di farsi processare”, cioè rimaneva fuori dell’aula giudiziaria e, dunque, contumace.
Di lì a poco il dr. Tosti compariva dinanzi alla Corte di Appello e, anche qui, riproponeva -per la quarta volta- la stessa identica questione: non avendo i giudici aderito all’invito di sollevare un conflitto di attribuzione, il dr. Tosti si alzava dalla sedia e di allontanava, cioè “si rifiutava di farsi processare”.
Essendo stato respinto l’appello, il dr. Tosti proponeva ricorso per cassazione, ovviamente eccependo la nullità dell’intero dibattimento di secondo grado, perché celebrato in sua giustificata assenza. Con lo stesso ricorso, peraltro, il dr. Tosti riproponeva -per la quinta volta- la stessa identica questione dinanzi ai giudici della Cassazione penale, invitandoli cioè a sollevare un conflitto di attribuzione e preannunciando che, in caso contrario, egli non solo si rifiuterà di farsi processare dai giudici della Cassazione, ma revocherà anche la nomina dei suoi legali di fiducia.
Ma non è ancora tutto. Il 22 novembre scorso, infatti, si è celebrato il secondo processo dinanzi ai giudici del Tribunale dell’Aquila e, ovviamente, il dr. Tosti ha presentato una memoria con la quale ha innanzitutto denunciato la nullità del giudizio dinanzi al GUP, perché celebrato in sua giustificata assenza, e, poi, ha riproposto -per la sesta volta- la stessa identica questione, invitando i giudici a sollevare un conflitto di attribuzione e preannunciando che, se non fossero stati rimossi i crocifissi o non fosse stato autorizzato ad esporre i propri simboli a fianco del crocifisso, si sarebbe rifiutato di farsi processare da quei giudici, avrebbe revocato la nomina dei suoi difensori di fiducia e si sarebbe recato presso la locale Procura della Repubblica per sporgere denuncia penale per il reato di discriminazione religiosa, p. e p. dall’art. 3 della L. 645/1975.
Non avendo aderito a nessuna delle richieste il dr. Tosti ha revocato la nomina dei suoi difensori, si è rifiutato di farsi processare, cioè se ne è uscito dall’aula, e ha sporto poi denuncia penale, rivendicando la stessa dignità e gli stessi diritti che la Dittatura fascista accordò, e che la Repubblica Pontificia seguita ad accordare, all’unica “razza Superiore”, cioè a quella dei Cattolici.
Ma non è finita. Come si potrà verificare nel prosieguo della lettura di questo ricorso, infatti, il dr. Tosti ripropone -per l’ottava volta- la stessa identica questione, cioè invita i Giudici delle SS. UU. a sollevare un conflitto di attribuzione.
Alla luce di questa cronistoria, appare assai evidente che il dr. Tosti “non si è difeso “dal” processo o “fuori” del processo”, come erroneamente dedotto dal CSM, ma si è difeso NEL PROCESSO: per la precisione, “nei processi penali nn. 2366/05, 3188/05, 3373/05, 3800/05R.G., 78/2006 e 194/2006 Mod. 21 P.M. Tribunale de L'Aquila e nei procedimenti riuniti nn. 637 e 638/2005 R.G. Tribunale de L'Aquila”.
Palese, dunque, è il vizio logico, essendo contraddittoria la motivazione della sentenza nella parte in cui omette di considerare che da altri brani della lettera incriminata, dalla esplicita “qualifica di imputato” spesa dal dr. Tosti nella lettera e, infine, dai documenti processuali prodotti -tutti obliterati dal CSM- risulta che il dr. Tosti non si è difeso “dal” processo, ma si è difeso “nel” processo nella sua “qualità” di “IMPUTATO” in procedimenti penali che ha avuto anche cura di individuare con i numeri di iscrizione.

3°) Terza censura.
Per annichilire, polverizzare, sbriciolare, incenerire e nebulizzare l’altra tesi del CSM, secondo cui “il dr. Tosti avrebbe accusato i giudici dell’Aquila di giudicare “non in nome del popolo italiano” e in conformità alla Costituzione, verso la quale hanno dichiarato osservanza e fedeltà, ma in nome del loro idolo” si fa rilevare:
a) che il dr. Tosti ha espresso -non solo nella lettera ma in altri numerosi scritti prodotti anche in giudizio ma obliterati dal CSM- il concetto e l’opinione (affermati dalla Cassazione penale, dal CSM e dai giudici costituzionali) che l’esposizione dei simboli partigiani nelle aule di giustizia fa sì che i giudici risultino inseriti in un’amministrazione della Giustizia “non laica” e, quindi, non neutrale e non imparziale. In effetti, se un giudice giudica sotto l’incombenza di simboli neutrali, come la bandiera e il ritratto presidenziale, è come se giudicasse in nome del popolo italiano che si identifica, appunto, in quei simboli neutrali. Se, invece, viene esposto anche un simbolo partigiano, come per esempio quello di Forza Italia, è come se il giudice, oltre che giudicare in nome del popolo italiano, giudicasse “anche” in nome del partito politico Forza Italia.
Non è quindi vero che il dr. Tosti ha affermato che i giudici dell’Aquila non giudicano in nome del popolo italiano, ma SOLO in nome del Dio cattolico.
Per confutare questa forzatura del CSM basterebbe richiamare quanto il dott. Luigi Tosti ha scritto a pag. 4 della memoria difensiva del 17.1.2007, che è agli atti ma che, ovviamente, il CSM ha diligentemente obliterato. In essa il dr. Tosti richiama quanto scritto a pag. 33 della memoria del 18.11.2005 (prodotta in giudizio e anch’essa diligentemente ignorata):
"Il crocifisso e il suo valore simbolico. La legge dispone che gli unici simboli nazionali che debbono essere esposti nei locali pubblici sono la "bandiera tricolore" e l' "effige del Presidente della Repubblica". La ratio evidente dell'esposizione dei simboli nazionali nei luoghi pubblici -ove i poteri pubblici esercitano, pubblicamente, funzioni pubbliche- è quella di evocare e trasmettere, appunto in forma simbolica, un messaggio solenne di questo tenore: "in questo luogo istituzionale la funzione pubblica è esercitata dal pubblico funzionario, nei confronti dei cittadini italiani, in nome del popolo italiano, il quale popolo si identifica, appunto, nella sua bandiera e nel ritratto del suo Capo supremo, il Presidente della Repubblica. Esporre, pertanto, nei luoghi pubblici i "crocifissi" -cioè i simboli religiosi "partigiani" che identificano solo i cattolici- significa, necessariamente, evocare, affermare e trasmettere quest'altro messaggio solenne: "in questi luoghi pubblici i pubblici funzionari esercitano i loro poteri pubblici, nei confronti di tutti i cittadini italiani (anche) in nome del Dio dei cattolici". Questo valore evocativo del messaggio può legittimamente risultare intollerabile, sia per i cittadini non cattolici che lo subiscono sia per i funzionari non cattolici che sono costretti a trasmetterlo: infatti, l'esercizio delle pubbliche potestà deve essere, in uno Stato non confessionale, del tutto neutro ed imparziale. L'intollerabilità ideologica di "questo" messaggio, evocato dal crocifisso, può essere parificata a quella che sarebbe evocata dall'esposizione, nei luoghi pubblici, di qualsiasi altro simbolo "partigiano". Si ipotizzi, ad esempio, il caso estremo della "croce" uncinata nazista e ci si interroghi, poi, se non sarebbe lecito che "coloro che non si identificano in quel simbolo" ne possano chiedere a buon diritto la rimozione e, in caso contrario, possano rifiutarsi di partecipare agli atti pubblici compiuti in suo nome."
Completamente inventate e fantasiose, poi, sono le “frasi” che il CSM asserisce che il Tosti abbia scritto contro i giudici dell’Aquila, “accusandoli di non osservare la Costituzione italiana, verso la quale hanno dichiarato osservanza e fedeltà.”
Nella lettera non vi è traccia di queste frasi e di queste accuse, sicché deve ritenersi che si tratti di una “deduzione” fantasiosa ed apodittica del CSM e, quindi, del tutto immotivata e del tutto incomprensibile.
Nell’ipotesi che il CSM abbia voluto alludere alla circostanza, affermata migliaia di volte dal ricorrente, che i giudici che giudicano sotto l’incombenza di un simbolo partigiano violano il principio supremo di laicità e, quindi, la Costituzione italiana, l’accusa del CSM apparirebbe allucinante: non solo perché queste “opinioni” il dr. Tosti le ha mutuate dalla Cassazione, dalle Corti Costituzionali e dal CSM, ma anche perché si tratta di circostanze di fatto VERE e, poi, di opinioni giuridiche, le quali possono non essere condivise, ma giammai possono determinare la responsabilità disciplinare per averle espresse.
Forse il CSM ignora che esistono il diritto costituzionale di difesa e quello di libertà di pensiero, opinione e di espressione, che implicano, necessariamente, quelli di formulare tesi ed ipotesi e di esprimere opinioni, sia in sede difensiva che al di fuori di essa. Se non fosse possibile formulare tesi ed esprimere opinioni giuridiche -pena la condanna disciplinare- sarebbe palese la violazione di un diritto primario.

4°) Quarta censura.
Con questa censura si segnala l’estrema contraddittorietà della valenza “diffamatoria” e “denigratoria” che è stata appioppata dal CSM alle espressioni usate dal Tosti.
Infatti, non è forse vero che il Ministro italiano fascista ha imposto la presenza dei crocifissi perché si tratta -sue parole testuali- di un “simbolo venerato”, cioè di un “idolo”, a tal punto di pregio da essere l’unico degno di “ammonire i giudici e i cittadini italiani circa la VERITA’ e la GIUSTIZIA che sono amministrate nei Tribunali dell’attuale Repubblica Pontificia Italiana??”
E non è forse vero -come sentenziato dal TAR Veneto e dal Consiglio di Stato, presieduti rispettivamente da un giurista cattolico e da un ex residente del centro studi Torrescalla dell’Opus DEI- che “il crocifisso, nell’attuale realtà sociale deve essere considerato non solo come simbolo....... dell’identità del popolo italiano, ma anche quale simbolo.... di libertà, eguaglianza, dignità umana e tolleranza religiosa e quindi anche della laicità dello Stato”, al punto tale che “appare difficile trovare un altro simbolo che si presti, più del crocifisso, ad esprimere questi valori??”.
E non è forse vero che la religione “cattolica” è la più bella che ci sia, che è l’unica che adora il Vero “Dio”, che è l’unica che ha ricevuto da Dio in persona la procura a rappresentarlo sul Pianeta Terra per il tramite dei Papi e dell’Associazione denominata Chiesa Cattolica, che è l’unica che pratica i Veri Valori morali, che è l’unica che ci garantisce intercessioni col Dio dell’aldilà per passare dal purgatorio al paradiso per la modica cifra di 390 euro, che è l’unica che è la depositaria della Vera Verità, che è l’unica che “fa del bene” e che merita dunque di essere foraggiata con le tasse dei cittadini italiani e di essere esentata dal pagamento delle tasse e dell’ICI, che è l’unica che può insegnare e diffondere la sua “dottrina” nelle scuole italiane a spese degli italiani, che è l’unica che può “licenziare” gli insegnanti italiani di religione, se più non li gradisce, facendoli gravare sulle nostre tasche, che è l’unica che può discriminare le donne impedendo loro l’accesso alle funzioni ed alle cariche ecclesiastiche, che è l’unica che può impedire agli studenti, se prima non si battezzano, di accedere alle università cattoliche, foraggiate con danaro degli italiani, che è l’unica a poter parlare nelle televisioni pubbliche, perché è ispirata direttamente da Dio, che è l’unica che può godere di essere inserita tra le “Istituzioni dello Stato italiano” nel televideo della RAI (pagina 418), che è l’unica che può dire cose veramente vere e morali, che è l’unica che parla quotidianamente con Dio per il tramite dei Vertici del Vaticano e della CEI per farci sapere come dobbiamo comportarci quando copuliamo, quando votiamo, quando stiamo male, quando vorremmo morire, quando programmiamo l’istruzione dei minori, quando dobbiamo votare per i referendum, quando dobbiamo votare per le elezioni, quando dobbiamo risolvere i nostri problemi di gravidanza, di sterilità e di stitichezza, che cosa dobbiamo leggere e non leggere, quali sono gli spettacoli e i films da vedere, quali le musiche da ascoltare, che è l’unica che fa miracoli con i suoi Santi a denominazione di origine controllata, che è l’unica che è abilitata a scacciare i demoni dai corpi degli indemoniati, che è l’unica che “lava” le coscienze con la confessione, facendole ritornare candide e pronte per altre nefandezze, che è l’unica cui Dio ha svelato che è il Sole che gira attorno alla Terra, e non viceversa, che è l’unica che può spiegare che la vera laicità è quella “sana”, che è l’unica che può partecipare alle inaugurazioni degli anni giudiziari italiani con i suoi supremi gerarchi, che è l’unica che vanta un Capo che non fallisce mai, che è l’unica che può celebrare i suoi riti nelle televisioni pubbliche e nei tribunali, che è l’unica ad avere staff permanenti di “vaticanisti” nelle reti televisive italiane, a spese del popolo italiano, che è l’unica abilitata a diffondere agli italiani le pillole quotidiane di saggezza e di verità, che è l’unica che può essere invitata alle inaugurazioni degli anni accademici nelle Università laiche della Repubblica Pontificia Italiana, per ricordarci che la Chiesa ha fatto bene a condannare quel criminale di Galileo Galilei, che è l’unica che può pretendere di essere esonerata da critiche e contestazioni, che è l’unica che può pretendere che le sue feste e i suoi raduni vengano foraggiati coi soldi dei sudditi della Colonia Vaticana, che è l’unica che può esporre i suoi crocifissi in tutti gli uffici pubblici e le scuole italiane???
E allora? Quali sarebbero, di grazia, le “offese” e le “denigrazioni”? E’ forse “offensivo” dare del “cattolico” a qualcuno? No, semmai è il massimo complimento, la massima lode che si possa fare ad una persona: non gli si da mica dell’islamico o dell’ebreo!!!
Ed è forse offensivo asserire che i giudici che accettano -a differenza del dr. Tosti- di far parte di un’Amministrazione della Giustizia connotata di cristianità, finiscono per giudicare in nome dell’idolo del crocifisso? Ma siamo pazzi? Semmai è vero il contrario: e cioè che il crocifisso, come sostenuto dal Ministro di Giustizia fascista e come sentenziato dal Papa, dall’Opus Dei e dalla suprema Giustizia Amministrativa italiana, è il massimo simbolo di laicità che esista nell’italica Repubblica Pontificia. Nulla è più neutrale, imparziale ed equidistante del crocifisso: in realtà un giudice, per essere “veramente” laico, DEVE giudicare sotto l’incombenza dei crocifissi. Anzi, per esaltare ancor di più la sua “imparzialità laica”, il “bravo” giudice (non il Tosti) dovrebbe permanentemente esporre al collo un crocifisso di standard cardinalizio o papale o -perché no- tatuarselo in fronte.
E allora, se le cose stanno così -e cioè se i Giudici Amministrativi e tutti i politici e tutte le istituzioni italiane, dal Papa al Presidente della Repubblica, fino all’ultimo assessore comunale, hanno sentenziato che il crocifisso deve essere esposto a spese dello Stato, al posto della bandiera e del ritratto del Presidente della Repubblica, perché è il massimo simbolo di laicità, di onestà, di tolleranza, di civiltà- perché mai si è ravvisato l’estremo dell’ “offesa” e della “denigrazione” nelle parole del dr. Tosti?
Dare forse a qualcuno del bello, dell’onesto, del perfetto, del buono, del tollerante, del civile, del rispettoso del principio di laicità è forse un’offesa?
Il ricorrente è frastornato: per caso gli accusatori del dr. Tosti hanno problemi dissociativi, oppure sono incappati in qualche lapsus freudiano?
E’ gradita una risposta.

5°) Quinta censura.
Per annichilire, polverizzare, sbriciolare, incenerire e nebulizzare l’ultima tesi del CSM, quella secondo cui il dott. Tosti avrebbe denigrato i giudici aquilani accusandoli “di essere indotti a condannarlo per non correre il rischio di essere sottoposti a procedimenti disciplinari, nonché ad un “linciaggio pubblico” da parte di autorità di autorità politiche e religiose”, nonché di aver denigrato il Ministro di Giustizia Mastella, “che avrebbe -non si sa in che modo- indotto i primi alla condanna per non correre i rischi di azioni disciplinari”, valga quanto segue.
a) L’accusa di aver denigrato il Ministro Mastella, accusandolo di aver costretto i giudici dell’Aquila a condannarlo, dietro minaccia di sanzioni disciplinari, è quanto di più calunnioso, assurdo, gratuito e fantasioso si possa concepire.
Si consideri, innanzitutto, che la condanna che sarebbe stata “pilotata” dal Ministro, cui allude il CSM, può essere soltanto quella inflitta dal Tribunale dell’Aquila il 18.11.2005: a quella data, però, il Ministro di Giustizia non era Mastella, bensì Castelli!!!
Dunque questa gratuita “accusa” del CSM, creata ad arte per condannare l’agnello Tosti, è palesemente falsa e calunniosa, essendo impossibile che Clemente Mastella abbia potuto, tantomeno nella qualità di Ministro di Giustizia, indurre i giudici dell’Aquila a condannarlo, il 18.11.2005, dietro minaccia di sanzioni disciplinari.
Secondariamente si rileva che il dr. Tosti, nella lettera 5.9.2006, non ha mai rivolto, né al Ministro Mastella né ad altri Ministri, l’accusa -a dir poco delirante e fantasiosa- di aver esercitato delle pressioni sui giudici dell’Aquila, minacciandoli di azioni disciplinari, affinché lo condannassero.
Queste affermazioni fantasiose del CSM sono state inventate di sana pianta al fine di SPUTTANARE, a livello nazionale, il dr. Luigi Tosti, propalandole poi all’Agenzia APCOM: e il progetto criminoso è riuscito.
Si tratta di un comportamento assai grave e diffamatorio, perché il FATTO per il quale l’incolpato ha riportato condanna disciplinare implica, necessariamente, l’affermazione che il dr. Tosti Luigi, con la lettera 5.9.2006, HA CALUNNIATO il Ministro Roberto Castelli, appioppandogli la perpetrazione di un vero e proprio REATO, ovverosia di aver indotto i giudici dell’Aquila dott.ri Carlo Tatozzi, Elvira Buzzelli, Romano Gargarella a condannarlo (cosa realmente accaduta), minacciandoli in caso contrario di azioni disciplinari.
E che si tratti di un congettura fantasiosa del CSM, di cui non esiste traccia nella lettera del 5.9.2006, è acclarato dal fatto che il CSM usa il condizionale (“avrebbe indotto...”) e, poi, puntualizza: “non si sa in che modo”.
E se il CSM “non sa in che modo” si sarebbe consumata l’azione delittuosa del Ministro Castelli, questo dipende soltanto dal fatto che è il CSM stesso che si è inventato di sana pianta questa azione delittuosa del Ministro Castelli.
Ovviamente il dr. Tosti trasmetterà questa sentenza alla Procura dell’Aquila, sporgendo denuncia penale contro il Ministro Castelli, affinché la Procura indaghi sul reato che il CSM ipotizza perpetrato dall’ex Ministro, chiedendo di interpellare, in primis, i tre magistrati che avrebbero -a detta del CSM- subìto le minacce di azioni disciplinari per indurli a condannare il Tosti.
In realtà si ribadisce che l’accusa mossa al Tosti nient’altro è se non il frutto del travisamento della frase incriminata e della lettura, dolosamente parziale e capziosa, della lettera incriminata.
Se si ha infatti cura di leggerla integralmente, balzerà evidente quello che il Tosti ha subito eccepito a propria discolpa nella memoria del 17.1.2007: e cioè che egli “aveva inteso esprimere, nella sua qualità di imputato e con parole che non integravano turpiloquio, bestemmia o vilipendio, il legittimo disappunto per le interferenze, le minacce, le offese oltraggiose, le ispezioni intimidatorie e il linciaggio pubblico di cui era rimasto vittima, due anni prima, il magistrato dell’Aquila dr. Mario Montanaro e, conseguentemente, la legittima preoccupazione che i giudici che dovevano giudicarlo non fossero sereni, ma condizionati da ciò che era accaduto al loro collega: essi, infatti, dovevano necessariamente decidere la stessa identica questione decisa dal dr. Montanaro, sicché rischiavano di subire ispezioni ministeriali, minacce di morte, intimidazioni, insulti e un linciaggio pubblico da parte dei politici italiani, delle Alte cariche istituzionali e dei vertici della Chiesa e del Vaticano, se avessero osato, proscioglierlo, affermando dunque che i crocifissi dovevano essere rimossi dai tribunali.
Questo -e nient’altro che questo- è il significato della frase.
Quindi, è innanzitutto errata la deduzione, operata dal CSM, secondo cui la frase incriminata si riferisce ai giudici che “già avevano giudicato e condannato” il Tosti in data 18.11.2005: in realtà la frase si riferisce chiaramente ai giudici che “avrebbero dovuto giudicarlo”.
E questo risulta, in primis, dalla coniugazione della lingua italiana: il dr. Tosti, infatti, scrive “ribadisco che non accetto di essere processato da giudici che sono indotti a condannarmi per non correre il rischio...”, e non: “ribadisco che non accetto di essere stato condannato da giudici che lo hanno fatto per non correre il rischio di essere condannati”. La conferma immediata è nel fatto che a pag. 6 della lettera il dr. Tosti si rivolge al Ministro Mastella in questi termini: “Gradirei anche sapere se è sua intenzione reiterare, come il suo predecessore On.le Castelli, la minaccia di procedimenti disciplinari a carico dei giudici aquilani che “osassero” incautamente affermare l’illiceità dell’esposizione dei crocifissi nelle aule giudiziarie italiane, in “oltraggioso” disaccordo coi dictat del Vaticano, della Conferenza Episcopale Italiana e della schiera trasversale dei politici sopra menzionati”.
Necessita, dunque, una buona dose di mala fede per travisare la frase incriminata, stravolgendone il significato che è palesato anche da quest’ultima frase.
Si ribadisce: nient’altro ha fatto il dr. Tosti, se non esprimere la legittima preoccupazione per il clima di intimidazione che si era instaurato -a livello nazionale- sulla questione dei crocifissi. E se si considera che il codice di procedura penale attribuisce all’imputato (e Tosti lo era) il diritto di “legittima suspicione”, cioè di chiedere che la causa sia trattata da giudici di altro circondario, se non sussiste in ambito locale una serenità di giudizio, c’è da rimanere allibiti per la condanna che è stata inflitta: nella fattispecie, infatti, il dr. Tosti non poteva avanzare alcuna assurda istanza di rimessione dei processi pendenti a L’Aquila, perché il clima di intimidazione contro i giudici riguardava l’intera nazione. Egli, dunque, null’altro poteva fare che scrivere lettere come quella, per denunciare al Ministro di Giustizia Mastella la delirante e intimidatoria ispezione contro il dr. Montanaro che era stata disposta dal suo precedente collega, per fargli capire che era il caso che le alte cariche istituzionali, i politici e le gerarchie ecclesiastiche cessassero di interferire nell’attività dei giudici e di condizionarne la serenità di giudizio.
Il che è stato espresso riportando fatti e frasi assolutamente veri, senza turpiloquio e senza termini offensivi, tantomeno nei confronti dei giudici dell’Aquila che avrebbero dovuto giudicarlo: anzi, quella lettera mirava proprio a proteggere e salvaguardare la loro serenità di giudizio, e cioè a scongiurare il ripetersi del linciaggio subito dal loro collega.
Palese, dunque, è l’errore in cui è incappato il CSM, perché, omettendo di considerare tutto il testo della lettera e, in particolare, le frasi indicate dal dr. Tosti, ha attribuito alla frase un significato sbagliato, e cioè che i giudici aquilani erano “pavidi”.
Questa valutazione è palesemente falsa, anche alla luce del fatto che, dopo averla scritta, il dr. Tosti ha subito puntualizzato: “Le ricordo, a tal proposito..”, così chiarendo che i “rischi” paventati non erano frutto di “fantasia” e di “immaginazione” del dr. Tosti, ma PURA VERITA’ STORICA, documentata da una serie di deliranti ingiurie, minacce, intimidazioni, di cui era rimasto vittima il dr. Montanaro.
E’ un vero e proprio delirio che -a fronte del criminale ed arrogante comportamento dei politici italiani- il soggetto che ne esce sanzionato sia il dr. Tosti. Dovreste vergognatevi, se mai riusciste a rintracciare in voi una briciola di pudore.

7° MOTIVO
Violazione degli articoli 24 Costituzione, 6 della legge 4.8.1955 n. 848, nonché degli articoli 21 della Costituzione, 9 e 10 della legge 4.8.1955 n. 848.
L’art. 24 della Costituzione garantisce a tutti il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e sancisce che la difesa è un diritto inviolabile. Analogamente l’art. 6 della legge 4.8.1955 n. 848 sancisce che ogni persona ha diritto di far esaminare la sua controversia da un tribunale imparziale.
Il diritto di difesa delineato dalle due norme implica, necessariamente, il diritto di prospettare e formulare le proprie tesi e pretese giuridiche.
Come risulta pacificamente dagli atti e, in ogni caso, come risulta documentalmente attestato dai documenti prodotti sub numeri 2-5 del fascicolo di parte (lettera 3.5.2005, memoria 18.11.2005, memoria 13.1.2006 e memoria 30.1.2007), il dr. Luigi Tosti, dopo aver proposto un ricorso giurisdizionale contro il Ministro di Giustizia per ottenere la rimozione dei crocifissi dalle aule di giustizia italiane, ha iniziato, dal 9.5.2005, a “rifiutarsi di tenere le udienze”, subendo poi l’apertura di un processo penale.
In sede giurisdizionale penale -e quindi nell’ambito dell’esercizio legittimo del suo diritto inviolabile di difesa- il dr. Luigi Tosti ha addotto, a sostegno della legittimità del suo comportamento, la necessità di “rifiutarsi di violare il principio supremo di laicità dello Stato”, il quale principio si sostanzia, come sancito dalla Corte Costituzionale, nell’obbligo dei funzionari e, quindi, dei giudici, di amministrare la giustizia nei confronti dei cittadini con imparzialità, neutralità ed equidistanza.
Per la precisione, i sillogismi che sono stati formulati e posti a fondamento del ricorso giurisdizionale e della linea difensiva penale sono i seguenti:
1°) la legge dispone che i simboli che possono essere esposti negli uffici pubblici sono quelli che identificano l’unità nazionale, come ad esempio la bandiera e il ritratto del Presidente della Repubblica: la ratio di tale esposizione è fondata sulla circostanza che tali simboli, identificando tutti i cittadini italiani, trasmettono a questi ultimi, in chiave simbolica, il messaggio che in quei luoghi pubblici i pubblici funzionari esercitano le loro funzioni in nome del popolo italiano -che si identifica appunto in quei simboli nazionali- e non in nome di un qualche gruppo o interesse “di parte”, cioè “partigiano”;
2°) da tale premessa consegue, necessariamente, che negli uffici pubblici non possono essere esposti i simboli “partigiani”, qualunque sia la loro natura (religiosi, politici, economici, culturali, sportivi etc.): essendo infatti simboli “di parte”, essi identificherebbero SOLO una categoria di cittadini;
3°) dunque, l’esposizione del SOLO crocifisso negli uffici pubblici e, in particolare, nelle aule giudiziarie, deve ritenersi illegale e lesiva del principio di laicità dello Stato (come peraltro espressamente sentenziato da Cass. pen., n. 4273/2000), trattandosi di un simbolo “partigiano”, cioè che identifica SOLO i “cattolici”: esporlo nei tribunali, infatti, significa evocare, affermare e trasmettere ai cittadini il messaggio, simbolico, che in quelle aule i giudici amministrano la giustizia, oltre che in nome del popolo italiano, “anche” in nome del Dio dei cattolici;
4°) dall’illiceità della circolare fascista, che impone l’esposizione dei crocifissi nelle aule di giustizia, scaturisce dunque la conseguenza che il “rifiuto di tenere le udienze”, posto in essere dal giudice Tosti dal 9.5.2005, deve ritenersi legittimo e penalmente irrilevante, dal momento che questo magistrato, essendo informato all’osservanza della Costituzione, cui ha prestato giuramento, e della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ha ritenuto di dover rispettare il diritto primario dei cittadini italiani ad essere giudicati da giudici che siano “imparziali”, anche sotto il profilo dell’ “apparenza” (simbolica).
Ebbene, nella sua nuova veste di “imputato”, il dr. Luigi Tosti si è trovato nella necessità di riproporre l’identica questione difensiva, sollevata dapprima come “giudice”.
Se, infatti, il dr. Tosti era stato costretto -come giudice- a “rifiutarsi di tenere le udienze a causa dell’esposizione di un simbolo partigiano e della mancata esposizione di tutti gli altri simboli” -e questo per non violare il diritto degli imputati di essere giudicati da giudici “visibilmente imparziali”- come imputato egli si vedeva costretto (è una questione di ovvia coerenza e di pura logica) a “rifiutarsi di farsi processare da giudici “visibilmente parziali”, che cioè erano “simbolicamente partigiani” a causa dell’esposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie e che apparivano, dunque, inseriti in un’amministrazione giudiziaria connotata di sola cristianità”.
Dal momento, tuttavia, che il suo “rifiuto di farsi processare da giudici visibilmente partigiani” -cioè di presenziare alle udienze dibattimentali- determinava la “castrazione” del suo diritto costituzionale di partecipare alle udienze e di difendersi, l’imputato dr. Luigi Tosti si è trovato nella necessità di prospettare -sia al Ministro di Giustizia che ai giudici che dovevano giudicarlo- questo suo “legittimo impedimento a presenziare alle udienze”, sollecitando il primo a rimuovere i crocifissi da tutte le aule giudiziarie e i secondi -cioè i giudici- a sollevare un conflitto di attribuzione contro il Ministro di Giustizia, se questi non avesse nel frattempo rimosso i crocifissi.
Orbene, per formulare queste istanze difensive -che avevano un’incidenza diretta nei processi penali in corso- l’imputato dr. Tosti si è trovato nella necessità di “scriverla” su dei fogli di carta, esponendo in essi tutti i sillogismi di cui sopra.
E’ dunque di lapalissiana evidenza che il dr. Tosti, nella sua veste di imputato, si è trovato nella necessità di “ribadire” in queste istanze difensive (e ribadire significa “ripetere”) i sillogismi, le frasi, le parole e le affermazioni che egli aveva già “scritto” in decine di altri analoghi scritti difensivi e di lettere, inoltrate sia al Ministro di Giustizia e ai suoi superiori, e cioè:
a. che i magistrati italiani -se vengono costretti dal Ministro di Giustizia a giudicare in aule dove sono esposti i crocifissi, cioè i simboli“partigiani” che identificano solo gli adepti cattolici- divengono per ciò stesso “giudici partigiani”, e cioè “giudici che si identificano platealmente nei crocifissi cattolici appesi sopra la loro testa, e non nei simboli neutrali dell’unità nazionale che, guarda caso, sono accuratamente estromessi dalle aule giudiziarie italiane”;
b. che questa loro “partigianeria simbolica” (e non “cerebrale”, come grottescamente ritenuto dal CSM) pregiudica, necessariamente, “il diritto costituzionale (111 Cost.) e fondamentale (art. 6 Convenzione) dell’imputato Luigi Tosti di “essere giudicato da giudici VISIBILMENTE IMPARZIALI”, cioè in aule prive di qualsiasi simbolo “partigiano”, oppure piene di tutti i simboli religiosi”;
c. che questa lesione del diritto primario dell’imputato Tosti Luigi veniva accentuata, nel caso di specie, dalla circostanza che egli -a causa del suo “rifiuto radicale di giudicare sotto l’incombenza del crocifisso e, dunque, anche in nome dell’ “idolo” cattolico”- si trovava ad essere giudicato “da giudici di parte cattolica, che cioè tenevano un comportamento diametralmente opposto al suo, accettando di giudicare sotto l’incombenza del crocifisso e, dunque, di far parte di un’Amministrazione connotata di cristianità”.
Ora, era ed è evidente che in una causa come questa -dove l’“assoluzione” dell’imputato Tosti Luigi comporta, automaticamente, la “condanna” del Ministro a rimuovere i crocifissi dalle aule di giustizia e dove l’imputato pretende, preliminarmente, che i crocifissi vengano rimossi per consentire la celebrazione valida del processo- non si può fare un pieno affidamento di “imparzialità” in quei giudici che siano eventualmente cattolici (e, stando alle “statistiche”, le probabilità sono altissime): costoro, infatti, hanno un chiarissimo “interesse in causa”, perché il crocifisso è il LORO simbolo religioso e l’esposizione del SOLO crocifisso è un PRIVILEGIO che è stato loro concesso dal Ministro fascista e al quale -come i fatti obbiettivi dimostrano- non intendono affatto rinunciare (l’unico che vi ha onestamente rinunciato è il prof. Cesare Ruperto, Presidente della Consulta).
E’ logico, dunque, che i giudici cattolici non possano giudicare in modo pienamente sereno e imparziale, perché, se accolgono le istanze di giustizia del dr. Tosti, perdono sicuramente il “privilegio” del crocifisso, al quale tengono assai.
Alla luce di tutte queste considerazioni giuridiche, appare evidente che la condanna inflitta al dr. Luigi Tosti per le supposte frasi “denigratorie” si profila aberrante anche sotto il profilo del rispetto del diritto costituzionale di difesa: nessuno, infatti, può essere condannato per il fatto di aver esercitato un diritto inviolabile, come il diritto di difesa, che è anche garantito dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.
Nel caso di specie, in effetti, il dr. Tosti ha dovuto necessariamente scrivere quelle frasi, poi “censurate”, perché costrettovi dalla necessità di “DIFENDERSI”.
Egli, cioè, non aveva altra alternativa se non quella di usare quelle parole, quelle frasi, quei sillogismi e quei concetti che ha di fatto usato, peraltro mutuandoli e ricopiandoli da sentenze della Cassazione penale, delle Corti Costituzionali italiana, svizzera e tedesca, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e, dulcis in fundo, del CSM.
E allora chiediamo: che cavolo avrebbe dovuto scrivere il cittadino Tosti Luigi, nelle sue istanze difensive, per non incappare in sanzioni disciplinari?
Forse avrebbe dovuto scrivere che, “essendosi come giudice rifiutato di calpestare il diritto dei cittadini non cattolici e dei cittadini non credenti di essere giudicati da giudici “visibilmente imparziali”, egli accettava di buon grado -nella veste di imputato- di farsi processare da giudici parziali che si identificavano nei crocifissi appesi sopra la testa, e non nei simboli nazionali, giustamente estromessi dalle aule per non pregiudicare il regime di “confessionalità” della Repubblica Pontificia Italiana????”.
Doveva forse scrivere -per dimostrare di essere un bravo magistrato- che “egli accettava, di buon grado e con felicità, di essere processato da giudici che, se cattolici, non avevano alcun interesse in causa???”
Ma esiste, o non esiste, un limite all’impudenza? Esiste, o non esiste, un limite oltre il quale la persecuzione e il mobbing, perpetrati per anni e anni col classico coraggio del branco, divengono reati?????
Si risponda, per favore: fornite una giustificazione plausibile della condanna infamante che è stata inflitta per comportamenti che integrano l’esercizio di diritti inviolabili.
Il ricorrente reputa a dir poco immorale e avvilente che i soldi dei cittadini italiani vengano dilapidati per soddisfare le pulsioni di ritorsione e di persecuzione del Ministro di Giustizia e per intossicare la vita e l’esistenza a chi ha l’unica colpa di aver scritto la pura e semplice VERITA’. Per soddisfare queste pulsioni sono stati impegnati, e si dovranno impegnare, 3 sostituti procuratori generali presso la Corte di Cassazione, 6 giudici della Sezione disciplinare del CSM, segretari, cancellieri, dattilografi ed uscieri del CSM, personale del Ministero di Giustizia, 9 giudici della Corte di Cassazione ed altro personale. Chi paga? E chi paga gli avvocati del dr. Tosti? E chi paga i mesi persi dal Tosti per contrastare questa persecuzione? E chi paga gli stress e i danni esistenziali? Mastella?
Sono gradite le risposte.

Quesito di diritto: si chiede se leda o meno il diritto inviolabile di difesa -e in via gradata -il diritto di libertà di pensiero, opinione ed espressione- la condanna di un magistrato per avere egli scritto, nell’esercizio del diritto di difesa, cose vere, e per aver espresso opinioni ed argomentazioni giuridiche, peraltro mutuate da sentenze, allorquando il tenore e la forma delle opinioni sia necessaria e indispensabile ai fini della prospettazione delle tesi difensive.

Chiusa l’esposizione dei motivi di ricorso, il dr. Tosti si vede costretto a riproporre la seguente

QUESTIONE PRELIMINARE RELATIVA ALLA CELEBRAZIONE DELL’UDIENZA DI DISCUSSIONE DEL PRESENTE RICORSO
I. Dal momento che le problematiche relative al rispetto del principio supremo di laicità si riproporranno, inevitabilmente, anche dinanzi alle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, quando sarà celebrata la discussione del presente ricorso, il ricorrente dr. Luigi Tosti preannuncia sin d’ora che sarà costretto a rifiutarsi di farsi processare, cioè di esercitare il suo diritto di difesa per il tramite dei suoi difensori di fiducia, se per quella data non verranno rimossi da tutte le aule di Giustizia italiane (e non dalla sola Cassazione) i crocifissi o, in alternativa, se non verranno esposti a fianco dei crocifissi tutti i simboli delle varie divinità concepite dalla mente umana e, in ogni caso, il logo dell’U.A.A.R. (Unione Atei Agnostici Razionalisti), la menorà ebraica, nonché i simulacri di Pallade Atena, di Budda, della Dea Iside, del Dio Bacco, di Odino, di Manitù, del Dio Quetzalcoatl, del Dio Mòrot e del Dio Bàcaroz, tutti Dei che il dr. Luigi Tosti, attualmente, venera ardentemente e della cui presenza, supporto e conforto simbolici e morali, dunque, egli intende usufruire e godere in occasione del futuro dibattimento, alla stesa stregua di quanto è concesso, dall'attuale Repubblica Pontificia, alla “Superiore Razza” dei Cattolici.
Per la precisione, si preannuncia che il dr. Luigi Tosti sarà costretto (e non si tratta di libera scelta) a revocare il mandato ai suoi due difensori di fiducia -i quali condividono in toto le motivazioni del suo rifiuto e rivendicano anch’essi il rispetto della loro dignità umana e professionale- e impedirà agli stessi di partecipare all’udienza di discussione.
II. Le motivazioni di questo rifiuto sono del tutto analoghe a quelle del portatore di handicap che, rifiutandosi di comparire in udienza a causa della mancata eliminazione delle barriere architettoniche da parte delle Amministrazioni dello Stato, rivendicò il rispetto da parte dello Stato italiano della sua DIGNITA’ di essere umano e dei suoi diritti di EGUAGLIANZA, ottenendo poi un esplicito riconoscimento di tali diritti da parte della Cassazione penale, Sez. III, con la sentenza 17.11.2001, n. 3376. Per la precisione la Cassazione ha affermato che “nel caso di imputato disabile che non possa comparire per l’esistenza di barriere architettoniche che gli impediscono di accedere all’aula di udienza, l’ordinanza che ne dichiari la contumacia è nulla perché gli interventi di rimozione degli ostacoli devono essere preventivi rispetto al manifestarsi dell’esigenza della persona disabile e i problemi di questa non possono essere oggi considerati come problemi individuali, bensì vanno assunti dall’intera collettività. Spetta all’amministrazione pubblica garantire alle persone disabili modalità di accesso ai locali rispettose dell’uguaglianza e della pari dignità di tutti i cittadini. L’”assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento”, la cui presenza (accertata o probabile) impedisce, ai sensi dell’art. 420 ter c.p.p. (riproduttivo dell’abrogato art. 486), la dichiarazione di contumacia dell’imputato, va riconosciuta anche nel caso in cui, trattandosi di imputato portatore di handicap, lo stesso abbia preventivamente manifestato la sua intenzione di partecipare al dibattimento e, al tempo stesso, la impossibilità di accedere ai locali di udienza a causa della presenza di barriere architettoniche, dovendosi al riguardo considerare che la rimozione o la neutralizzazione di tali barriere mediante opportuni accorgimenti tecnici fa carico, in base a precise disposizioni normative contenute, in particolare, nella l. 5 febbraio 1992 n. 104 e nel d.P.R. 24 luglio 1996 n. 503, alle competenti autorità pubbliche, le quali debbono provvedervi indipendentemente dal manifestarsi dell’esigenza della singola persona disabile. (Nella specie, in applicazione di tali principi, la Corte ha censurato la motivazione dell’ordinanza con la quale il giudice, nel dichiarare la contumacia di un imputato privo di entrambi gli arti inferiori, aveva ritenuto non giustificato il rappresentato impedimento costituito dalle barriere architettoniche che ostacolavano l’accesso ai locali d’udienza, sull’assunto che siffatto impedimento avrebbe potuto essere eliminato “con mezzi ausiliari, ove ne fosse stata richiesta l’utilizzazione”). Non sussistendo per l’imputato un obbligo giuridico di presenziare alle udienze, il giudice in caso di assenza deve dichiararne la contumacia - con le conseguenze che detto istituto ha sulle forme di partecipazione e di comunicazione - salvo che sussista la prova (o la concreta probabilità) che l’assenza non dipenda da libera opzione, bensì -ed è il caso che qui interessa - da una impossibilità “assoluta” che si è contrapposta alla scelta positiva dell’imputato di presenziare (art. 486).”
In altre parole, anche il dr. Tosti -come peraltro i difensori da lui scelti- rivendica il rispetto da parte dei Giudici della Cassazione e del Ministro di Giustizia della sua dignità di essere umano e del suo diritto di eguaglianza e non discriminazione e, pertanto, dichiara che, se non verranno rimossi i crocifissi o non verranno esposti tutti gli altri simboli al loro fianco, si rifiuterà di farsi processare da giudici visibilmente partigiani, cioè da giudici che operano in un ambiente partigiano connotato di sola cattolicità romana a causa dell'esposizione generalizzata dei soli crocifissi (n.d.r.: ovviamente si sollecita altro immediato procedimento disciplinare per queste “offese” di “partigianeria” nei confronti dei Giudici della Cassazione).
Dal momento che l’assenza dei difensori dovrà essere ritenuta “giustificata”, perché necessitata dall’esigenza di evitare di subire la lesione dei suddetti diritti di EGUAGLIANZA e LIBERTA’ RELIGIOSA, si invitano sin da ora le SS. UU. della Corte di Cassazione ad attivarsi presso il Ministro di Giustizia -com’è loro onere- per ottenere la rimozione dei crocifissi o l’aggiunta degli altri simboli e, in caso di diniego, a sollevare un conflitto di attribuzione nei confronti del Ministro di Giustizia, avendo peraltro l’accortezza di evitare di motivare il conflitto con la circostanza che la presenza nelle aule di giustizia dei crocifissi pregiudica -come affermato dalla Cassazione penale, dalla Corte Costituzionale elvetica, dalla Corte Costituzionale tedesca, dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo e dal Consiglio Superiore della Magistratura- il principio supremo di laicità dello Stato e, quindi, l’obbligo dei giudici di non identificarsi in simboli partigiani. Questo “consiglio” viene gratuitamente dispensato dal dr. Tosti per evitare agli Eccellentissimi giudici della Corte di Cassazione di incappare nello stesso procedimento disciplinare intentato contro di lui: il dr. Tosti consiglia, semmai, di motivare il conflitto di attribuzione in senso opposto, e cioè affermando che la necessità di rimuovere i crocifissi poggia sulla circostanza che la presenza dei SOLI crocifissi “esalta” l’imparzialità simbolica dei giudici, al pari, ad esempio, dell’esposizione dei SOLI simboli religiosi islamici nelle aule giudiziarie italiane.
Queste che seguono sono le motivazioni del caldeggiato conflitto di attribuzione nei confronti del Ministro di Giustizia.
a) Il rifiuto del dr. Tosti di farsi processare in un ambiente confessionale cattolico scaturisce, in primo luogo, dall'esercizio del suo diritto primario di libertà di coscienza (artt. 2 e 111 Cost. ed artt. 9 e 6 Convenzione per la salvaguardia dei diritti fondamentali dell'uomo), ovverosia dalla necessità del dr. Tosti di evitare di subire un processo da parte di giudici che non sono visibilmente imparziali (n.d.r.: si promuova altro procedimento disciplinare per questa espressione) come prescritto dall'art. 111 della Costituzione e dall'art. 6 della Convenzione, bensì inseriti in un'amministrazione giudiziaria che è simbolicamente connotata di cattolicesimo: e, in effetti, l'esercizio del magistero cattolico attraverso l'esposizione dell'idolo del “Dio Biblico incarnato” (tale è Gesù Cristo, secondo il dogma ufficiale della Chiesa) è assolutamente incompatibile con l'obbligo di imparzialità e di neutralità della Istituzione “Giustizia”, come peraltro già sentenziato dalla Cassazione penale, sicché il dr. Tosti non accetta di essere giudicato da giudici che sono “parti in causa”, anziché garanti dell'imparzialità, anche simbolica, delle loro funzioni (si promuova altro procedimento disciplinare per questa frase: n.d.r.).
b) In secondo luogo il rifiuto del ricorrente dr. Tosti scaturisce dalla necessità di evitare di subire la lesione del suo diritto primario alla libertà di religione, garantito sia dalla Costituzione (art. 19) che dalla Convenzione sui diritti dell'uomo (art. 9), ovverosia del diritto di essere tenuto lontano dagli idoli degli Dei incarnati e da simbolismi religiosi nei quali non solo non si identifica ma che, anzi, egli detesta e condanna apertamente a causa delle criminalità e delle immoralità che connotano il Dio della Bibbia, che connotano il messaggio simbolico della cosiddetta “passione di Cristo” e che connotano gli insegnamenti dogmatici e i comportamenti altrettanto criminali, immorali, antidemocratici e lesivi dei più elementari diritti umani tenuti dalla Chiesa cattolica, anche attualmente.
c) Infine, il rifiuto del dr. Tosti scaturisce dall'esigenza di tutelare il suo diritto primario all'eguaglianza ed alla non discriminazione religiosa, garantitogli sia dall'art. 3 della Cost. che dall'art. 14 della Convenzione, dal momento che l'Amministrazione giudiziaria italiana privilegia smaccatamente i ricorrenti cattolici durante la celebrazione dei processi, non solo penali ma anche civili, garantendo loro l'esposizione dell'idolo del Dio Biblico incarnato e vietando, però, la stessa opportunità e lo stesso diritto a chi, come il Tosti, cattolico non è. Si tratta -com’è ovvio- di un “COMPORTAMENTO DISCRIMINATORIO di natura CRIMINALE”, dal momento che ai ricorrenti di fede ebraica o di altra fede o di nessun credo è inibito di giovarsi del supporto e del conforto della presenza in aula, sopra le teste dei giudici, dei propri idoli e/o dei propri simboli ideologici: supporto e conforto di cui, invece, si giovano -guarda caso- i ricorrenti cattolici e i loro difensori.
Sembra peraltro abbastanza ovvio che nessuno possa imporre al dr. Tosti Luigi -se non lo vuole- di frequentare conventi, chiese ed altri luoghi di culto connotati dall'ostensione del macabro e orrifico idolo del Dio incarnato: alla stessa stregua, pertanto, nessuno -come significativamente affermato dalle Corti Costituzionali di Paesi civili (Svizzera e Germania, ad esempio)- può obbligare il dr. Tosti a subire la presenza dei SOLI simboli cattolici allorquando viene processato, pubblicamente, da Giudici visibilmente “confessionali”, cioè inseriti in un'Amministrazione giudiziaria pubblicamente connotata di idolatria cattolica (si sollecita altra immediata incolpazione per quest’ultima frasi: n.d.r.).
Si tratta, innanzitutto, di una questione di rispetto dei diritti umani, oltre che di buona educazione. Il dr. Tosti non si sognerebbe infatti mai di esporre nelle chiese e nelle case dei cattolici i suoi simboli ideologici: egli pretende, dunque, che il Papa, la Chiesa, i seguaci della setta religiosa cattolica e i Ministri di Giustizia della Pontificia Colonia italica si comportino allo stesso modo, cioè si astengano dal marcare in modo così squallido le pareti delle aule di Giustizia -che non appartengono a loro, bensì a TUTTI i cittadini italiani- esponendo il simbolo del loro supposto Dio incarnato e inchiodato.
E questo non solo perché si tratta di un simbolo che evoca in modo macabro e orrifico un messaggio altamente immorale, diseducativo e psicologicamente deleterio, cioè l'assassinio di un Dio-figlio perpetrato da un Dio-Padre per assurde e inconcepibili finalità di “redenzione” di terzi “colpevoli”, cioè dell'Umanità “peccatrice”, ma anche per le intollerabili e ingiustificabili implicazioni di genocidi, di assassini, di torture, di criminale inquisizione, di criminali crociate, di criminale razzismo, di criminali roghi contro eretici e streghe, di criminale schiavismo, di superstizione, di criminale discriminazione e persecuzione razziale, di criminale shoà, di criminali rapimenti di bambini ebrei, di criminali confische, di disprezzo delle donne e degli omosessuali, di omofobia, di sessuofobia patologica, di intolleranza, di oscurantismo, di violazione e prevaricazione dei più elementari diritti politici ed umani alla libertà di opinione, di pensiero, di religione e di eguaglianza, di omertosa e criminale copertura dei preti pedofili, di falsificazioni e taroccamenti di scritture “sacre”, di falsificazioni di “donazioni costantiniane”, di false reliquie, di falsi prepuzi di Cesù Cristo, di falsi e truffaldini sangui di San Gennaro, di false madonne che piangono sangue, di false sindoni, di false veroniche, di falsi miracoli, di false “case” di Madonne di Loreto, di falsi Limbi, di falsi Purgatori, di falsi esorcismi, si false stigmate, di falsi ed impostori Padri Pii, di truffe, di messe gregoriane truffaldine, di abuso della credulità popolare a fini speculativi, di mercimonio di indulgenze e di truffaldine medaglie “miracolose”, di “santificazione” di Papi assassini e criminali, di bolle di componenda, di illeciti finanziari e via dicendo, crimini di cui la storia millenaria del crocifisso è irrimediabilmente intrisa.
Essendo poi dotato di fondamenti etici e civili informati alla condivisione e all'osservanza dei basilari precetti del codice penale, della Costituzione italiana, delle Convenzioni internazionali sui diritti dell'Uomo e delle Convenzioni internazionali contro ogni forma di discriminazione, il ricorrente Tosti Luigi non intende minimamente subire processi da parte di Giudici che si identificano simbolicamente e platealmente in un Dio biblico assassino, terrorista, genocida, intollerante, stupratore, infanticida, schiavista, dispregiatore delle donne e degli omosessuali, razzista, sessuofobo e a tal punto borioso e criminale da pretendere di essere venerato dagli uomini con sacrifici umani ed animali (si sollecita altro procedimento disciplinare per questa frase, magari utilizzando l’interpellanza parlamentare del leghista Castelli Roberto, prodotta dal Tosti sub doc. n. 6, laddove l’interrogante si lamenta col Ministro Mastella per queste “frasi estremamente offensive contro Dio, vero e proprio vilipendio alla divinità”; si proponga, magari, anche un procedimento disciplinare o penale contro lo scienziato scrittore Richard Dawkins che a pag. 38 del libro “L’ipotesi di Dio”, prodotta sub doc. n. 6, definisce il Dio Biblico come “il personaggio più sgradevole di tutta la letteratura, un castigamatti, meschino, iniquo e spietato, sanguinario istigatore della pulizia etnica, un bullo misogino, omofobo, razzista, infanticida, genocida, figlicida, pestilenziale, megalomane, sadomasochista e maligno secondo il capriccio”, richiamando anche il più sintetico giudizio di Randolph Churchill, che appioppò al Dio biblico la qualifica di “merda”).
E' la “debole” morale del dr. Tosti che gli impedisce tutto ciò, anche se, ovviamente, il dr. Tosti non ha il minimo “astio” o disprezzo nei confronti del Dio biblico, la cui unica colpa è quella di essere stato creato dall'uomo a sua immagine e somiglianza e, quindi, con le sue debolezze e con le sue inclinazioni criminali.
Giammai il dr. Tosti accetterebbe l'imposizione della croce uncinata nazista da parte dello Stato italiano -e questo perché ripudia ed aborre i crimini compiuti dai cristiani nazisti, che non a caso operavano alle dirette dipendenze del buon Dio (“Gott mit uns”) - e quindi -e a maggior ragione- egli non accetta di essere processato da un’Amministrazione Giudiziaria connotata di una criminalità simbolica ben superiore, cioè quella del crocifisso cattolico, vessillo di un’associazione criminale che è stata autrice, per circa 2.000 anni, dei più efferati crimini contro l’umanità, peraltro condivisi dai papi e dalle gerarchie ecclesiastiche ed ancor oggi non rinnegati (si sollecita altro procedimento disciplinare per queste frasi).
Se qualcuno si vuole ancora identificare in quel simbolo e intende ancora glorificarsi del supposto “Amore” del supposto unico Dio, nella sua duplice versione di Dio-Padre e di Dio-Figlio incarnato, lo faccia pure: ma lo faccia a causa sua, sulla sua persona, nei suoi templi, nei Tribunali dell'Inquisizione e in quelli della Sacra Rota, ma non lo imponga al dr. Tosti che, proprio grazie a un siffatto Dio criminale, si identifica in valori morali e civili diametralmente opposti.
III. Ciò premesso, il ricorrente ritiene che il suo rifiuto a difendersi per il tramite dei suoi legali di fiducia dinanzi alle SS. UU. integri una chiara ipotesi di legittimo impedimento a difendersi nel processo civile.
D'altro canto, se la Cassazione penale ha ritenuto, nella sent. 4273/2000, che sia legittimo il “rifiuto” dello scrutatore di seggio di adempiere il proprio dovere per “evitare di ledere il diritto dei cittadini ad essere amministrati da funzionari imparziali e neutrali, che cioè non si identifichino simbolicamente nei crocifissi”, a maggior ragione deve ritenersi legittimo il rifiuto dei cittadini a farsi giudicare da giudici parziali, che cioè si identificano nei crocifissi loro imposti dal Ministro di Giustizia fascista (si sollecita altro procedimento disciplinare per la parola “parziali”, attribuita ai giudici).
Ricorda ancora il dr. Tosti che il “diritto di libertà di coscienza” è un diritto fondamentale, garantito sia dalla Costituzione (art. 2) che dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (art. 9): esso, più precisamente, consiste, nel “diritto di rifiutarsi di compiere atti doverosi, per evitare di ledere diritti primari altrui o di subirne la lesione di propri”.
Costituirebbe, ad esempio, un'ipotesi di diritto di libertà di coscienza il caso del funzionario che si rifiutasse di obbedire ad un atto normativo (legge, regolamento, circolare etc.) che gli imponesse di infilare gli ebrei nelle camere a gas o di torturarli: in questi casi, infatti, la “disobbedienza” del funzionario nei confronti di atti doverosi sarebbe necessitata dall'esigenza di evitare l'ingiusta lesione dei diritti primari alla vita o alla salute dei cittadini ebrei.
E se i funzionari possono legittimamente rifiutarsi di uccidere e/o torturare gli ebrei, sembra al ricorrente ineluttabile dedurre che gli ebrei, a maggior ragione, abbiano il diritto di rifiutarsi di entrare nelle camere a gas o di essere torturati (regge questo sillogismo?)
Alla stessa stregua, dunque, se la Cassazione ha sentenziato che un funzionario può legittimamente rifiutarsi di compiere atti di amministrazione a causa della presenza dei crocifissi -e questo per evitare di amministrare i cittadini in modo visibilmente parziale- a maggior ragione deve ritenersi legittimo il rifiuto del cittadino “giustiziabile” di subire atti di amministrazione “parziale” (anche questo sillogismo dovrebbe reggere). E se questo ragionamento calza per un funzionario, a maggior ragione calza per i giudici, sui quali incombe l'obbligo primario, sancito sia dalla Costituzione (art. 111) che dalla Convenzione sui diritti dell'Uomo (art. 6), di amministrare i “giustiziabili” con la rigorosa osservanza del principio di “imparzialità” (e l’imparzialità non è solo sostanziale, ma anche “apparente”).
IV. A maggior ragione, dunque, deve oggi ritenersi legittimo il rifiuto di un “giustiziabile” (come il ricorrente Tosti) di essere giudicato da Giudici (nella specie: le Sezioni Unite Civili) che risultano inseriti -e che accettano di esserlo, senza nulla opporre- in un'Amministrazione giudiziaria che appare istituzionalmente connotata di “parzialità” cattolica: tanto più in processi dove si dibatte circa la legittimità o meno del rifiuto del ricorrente “giustiziabile” di subire l'imposizione dell'idolo del Dio incarnato.
Quest’ultima circostanza fattuale non è di poco conto, perché -com’è ben noto- i giudici, per essere realmente “imparziali”, non debbono avere un “interesse personale” in causa: se lo hanno, infatti, essi hanno l’obbligo di legge (e non la facoltà) di astenersi. E’ quindi ben chiaro che in una causa come questa -dove il ricorrente contesta che i crocifissi possano essere presenti nelle aule di giustizia, e chiede pertanto che i giudici si attivino per ottenerne la rimozione in vista della celebrazione della pubblica discussione- nessun affidamento di “imparzialità” possa essere riposto nei giudici “cattolici” delle SS.UU.: il crocifisso, infatti, è il LORO simbolo religioso e l’esposizione del SOLO crocifisso concretizza, per i giudici cattolici, un vero e proprio PRIVILEGIO (regge questo sillogismo?). E’ dunque chiaro che i giudici cattolici hanno un interesse a mantenere il loro privilegio in causa e non possono, dunque, giudicare in modo sereno e imparziale: accogliere le istanze di giustizia del dr. Tosti, infatti, implicherebbe la perdita del privilegio che i fascisti hanno loro accordato (guarda caso, il connubio “fascismo-chiesa cattolica” torna sempre a galla: chissà perché!!!).
Queste motivazioni del ricorrente Tosti -lo si ribadisce- risultano pienamente condivise dalla Cassazione penale ed anche dal Consiglio Superiore della Magistratura nella sua “formazione” precedente (cfr. ordinanza n. 12/2006, depositata il 23.11.2006, la cui esistenza l’attuale CSM ha dimostrato incredibilmente di ignorare).
Si sottolinea, in particolare, che con la storica sentenza n. 439 del 1.3.2000 la IV Sezione penale della Corte di Cassazione ha sentenziato l'illiceità dell'ostensione dei crocifissi negli uffici pubblici perché, in primis, viola il “principio supremo di laicità” che si sostanzia -come costantemente affermato dalla Corte Costituzionale- nell'obbligo dello Stato (e, quindi, dei giudici) di essere neutrale, imparziale ed equidistante nei confronti di tutte le religioni e di tutti i singoli cittadini, in relazione alla loro fede o credo.
“L'imparzialità della funzione del pubblico ufficiale -ha chiarito la Corte- è strettamente correlata alla NEUTRALITÀ dei LUOGHI deputati alla formazione del processo decisionale, che non sopporta ESCLUSIVISMI e CONDIZIONAMENTI........indotti dal carattere evocativo, cioè rappresentativo del contenuto di fede, che ogni immagine religiosa simboleggia” (n.d.r.: si sollecita, ovviamente, un immediato procedimento disciplinare contro questi giudici della Cassazione, che hanno affermato gli stessi concetti per i quali il dr. Tosti è stato condannato, e cioè che i giudici che giudicano sotto l’incombenza dei crocifissi non sono simbolicamente “imparziali”).
Trasponendo questo giudizio della Cassazione al caso che riguarda il dr. Tosti, si deve ineluttabilmente affermare che l'esposizione del crocifisso “sopra il banco dei giudici” -imposto dal Ministro di Giustizia come “simbolo venerato”e “solenne ammonimento di verità e giustizia”- pregiudica la “neutralità” e l'“imparzialità” dei “luoghi deputati all'esercizio delle funzioni giurisdizionali (cioè le aule di giustizia), che non può sopportare esclusivismi e condizionamenti sia pure indirettamente indotti dal carattere evocativo, cioè rappresentativo del contenuto di fede, che ogni immagine religiosa simboleggia”.
Si deve quindi affermare che l'ostensione del crocefisso nelle aule giudiziarie italiane confligge col principio di imparzialità della giurisdizione, sancito dall'art. 111 della Costituzione, cioè con l'obbligo dei giudici di giudicare i cittadini in modo visibilmente imparziale.
V. Ma è altrettanto ovvio che all' “obbligo” di “imparzialità” del giudice corrisponda, dal lato attivo, il “diritto” del cittadino di essere giudicato da un giudice “imparziale”, come garantitogli dall'art. 111 della Costituzione e dall'art. 6 della Convenzione: di qui l'interesse del ricorrente, nella propria veste di incolpato, ad essere processato da un' Amministrazione Giudiziaria che non sia composta da giudici delle Sezioni Unite civili che si identificano platealmente nei crocifissi cattolici appesi sopra la loro testa, e non nei simboli neutrali dell'unità nazionale che, guarda caso, sono accuratamente estromessi dalle aule giudiziarie (raccomandiamo altro procedimento disciplinare per questa frase: ndr).
Ma non è tutto.
VI. La Cassazione ha infatti stigmatizzato l'ostensione dei crocefissi anche sotto il profilo della violazione del diritto all'eguaglianza: se, infatti, il “principio supremo di laicità” si sostanzia nell' “obbligo” di imparzialità, neutralità ed equidistanza” dello Stato nei confronti delle confessioni religiose e dei cittadini, questi ultimi debbono necessariamente ritenersi titolari del corrispondente “diritto” alla “non discriminazione, cioè all' “eguaglianza” (art. 3 Cost. e 14 Conv.).
E così, in effetti, si è espressa la Cassazione: “nel nostro ordinamento la giustificazione indicata urta contro il chiaro divieto posto in questa materia dall'art. 3 cost., come ha recentemente ricordato corte cost. 14.11.1997, n. 329, laddove ha sottolineato che... il richiamo alla cosiddetta coscienza sociale, se può valere come argomento di apprezzamento delle scelte del legislatore sotto il profilo della loro ragionevolezza, è viceversa vietato laddove la Costituzione, nell'art. 3, 1° comma, stabilisce espressamente il divieto di discipline differenziate in base a determinati elementi distintivi, tra i quali sta per l'appunto la religione”. E, nella specie, si differenzia appunto in base alla religione nel momento in cui si dispone l'esposizione del SOLO crocifisso”.
La presenza del SOLO crocifisso, quindi, lede necessariamente -e lo afferma la Cassazione- anche il diritto di eguaglianza di tutti i cittadini che -come il ricorrente- non si identificano in quel simbolo e che, dunque, vengono discriminati a causa della mancata esposizione dei loro simboli.
Ma ancora non basta.
VII. L'ostensione obbligatoria del crocifisso nelle aule viola, infatti, anche il diritto alla libertà religiosa dei cittadini (art. 19), soprattutto di quelli che non si identificano in quel simbolo e che sono però costretti a subirne la presenza e l'imposizione allorché sono costretti a frequentare gli uffici giudiziari allo scopo di esercitare il loro diritto alla difesa.
Sulla base di queste lineari premesse giuridiche (pienamente condivise dal CSM, almeno “quello” nella formazione precedente, visto che l’attuale mano destra del CSM non sa che cos’ha fatto la mano sinistra), il ricorrente si vede innanzitutto costretto ad invitare i Consiglieri di fede cattolica, che dovessero far parte del futuro Collegio giudicante, ad astenersi dalla trattazione del presente ricorso, in quanto aventi un chiarissimo interesse in causa: il dr. Tosti Luigi, infatti, sta avanzando loro la richiesta di attivarsi presso il Ministro di Giustizia per ottenere la rimozione di quello che, fino a prova contraria, è il “LORO IDOLO”, cioè il crocifisso, sicché la loro “imparzialità” è esclusa in radice dal loro INTERESSE a mantenere la presenza del loro unico simbolo nelle aule di giustizia. Una cosa, questa, che hanno fatto sino ad oggi, dimostrando in modo inequivocabile che non intendono rinunciare al loro “privilegio” (solo il cattolico Cesare Ruperto ho onestamente rinunciato a questo privilegio, rimuovendo il crocifisso dalla massima aula giudiziaria italiana).
In secondo luogo il ricorrente si vede costretto a rivolgere alle SS.UU. della Corte di Cassazione una formale istanza affinché si attivino presso il Ministro di Giustizia per ottenere la rimozione permanente dei crocifissi da tutte le aule giudiziarie italiane ai fini del ristabilimento della LEGALITA', cioè affinché sia preservato, durante l'intero corso del presente grado di giudizio, il rispetto del diritto del dr. Tosti di essere giudicato da un giudice “imparziale” (art. 111 Cost. e 6 Conv.), il rispetto del suo diritto all' eguaglianza senza distinzione di religione (art. 3 Cost. e 14 Conv.) e il rispetto del suo diritto alla libertà religiosa (art. 19 Cost. e 9 Conv.).
VIII. Orbene, posto che il dr. Tosti non intende accettare, per libertà di coscienza legata al rispetto dei suoi diritti primari, né che lui né che i suoi difensori siano costretti a presenziare e discutere il presente ricorso in aule connotate di cattolicità romana, le SS.UU. della Corte di Cassazione dovranno preliminarmente valutare se l’assenza dei difensori, determinata dalla revoca del mandato a causa dell’illegittima presenza dei simboli confessionali, integri o meno un'ipotesi di “legittimo impedimento dei difensori di fiducia a presenziare al dibattimento”: in caso negativo, infatti, il processo dovrà proseguire in assenza dei difensori di fiducia; in caso positivo, però, si imporrà il rinvio del dibattimento.
E' peraltro chiaro che un mero rinvio si rivelerebbe del tutto inconcludente, ove non fosse accompagnato dalla richiesta di rimozione dei crocifissi da tutti gli uffici giudiziari, che le SS.UU. della Corte di Cassazione dovranno necessariamente indirizzare al Ministro di Giustizia acciocché sia ripristinata la legalità e consentita la celebrazione del presente processo nel pieno rispetto del principio supremo di laicità (art. 111 Cost. e 6 Conv.) e nel pieno rispetto dei diritti di rango primario (artt. 3 e 19 Cost. e 14 e 9 Conv.) della parte ricorrente e dei suoi difensori, analogamente a quanto avvenuto per l’imputato portatore di handicap. E’ di lapalissiana evidenza, infatti, che quando i cittadini italiani -siano essi parti o difensori- si trovano nella necessità di accedere e di frequentare gli uffici giudiziari -per poter esercitare il loro diritto costituzionale di difendersi- non debbono essere costretti a subire la lesione di diritti primari, garantiti sia dalla Costituzione italiana che dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.
Nell'ipotesi che il Ministro ottemperi a questa richiesta, sarà eliminato qualsiasi ostacolo alla prosecuzione del presente giudizio.
IX. Nell'opposta ipotesi, però, è da escludere che le SS. UU. della Cassazione civile possano disapplicare la circolare del Ministro fascista Rocco, ex art. 4, all. E, della L. 20.3.1865 n. 2248, rimuovendo cioè di loro iniziativa i crocifissi: la rimozione dei crocifissi dalle aule giudiziarie italiane, infatti, postula l'esecuzione di un atto amministrativo di revoca che rientra nella competenza esclusiva del Ministro, come espressamente affermato dalla Cassazione penale nell'ordinanza n. 41.571 del 18.11.2005.
E' da escludere, poi, che possa essere sollevata una questione di incostituzionalità della “circolare”, trattandosi di mero atto amministrativo.
X. L'unica via praticabile, ad avviso del ricorrente, è quella del conflitto di attribuzione nei confronti del Ministro di Giustizia, ex art. 134, comma 2° Cost., e 37 L. 11.3.1953 n. 87, sussistendone tutti i requisiti oggettivi e soggettivi.
Queste le motivazioni.
E' in primo luogo innegabile che il diniego di rimozione dei crocifissi da parte del Ministro di Giustizia (sempreché ritenuto dalla Corte di Cassazione illegittimo ed ostativo alla prosecuzione del dibattimento) impedirebbe sine die la celebrazione del processo a carico del dr. Tosti: il che concretizzerebbe, di fatto, una “menomazione della pienezza della funzione giurisdizionale attribuita dalla Costituzione alle SS.UU. della Corte di Cassazione civile”.
Questa “menomazione” -si ribadisce- integrerebbe un'ipotesi del tutto analoga a quella dell' illegittimo rifiuto di rimuovere le barriere architettoniche, per consentire ad un avvocato di espletare il proprio mandato o ad una parte di accedere nelle aule di giustizia nel pieno rispetto della loro dignità e dei loro diritti di eguaglianza, oppure a quella dell’illegittimo rifiuto delle Camere di fornire all'Autorità giudiziaria documenti necessari ai fini probatori o, infine, a quella dell' illegittimo rifiuto dell'autorizzazione a procedere contro parlamentari: tutti casi, questi ultimi due, nei quali la Corte Costituzionale ha ritenuto e ritiene ammissibili i conflitti di attribuzione.
E sulla “illegittimità” dell'ipotetico rifiuto del Ministro di Giustizia di rimuovere i crocifissi dalle aule di giustizia non vi dovrebbero essere soverchi dubbi, dal momento che, come visto, la Cassazione penale e, oggi, anche lo stesso CSM si sono già pronunciati in tal senso.
E' da ribadire, a questo proposito, che se è ben vero che l'art. 110 della Costituzione attribuisce al Ministro di Giustizia la competenza a disciplinare “l'organizzazione e il funzionamento dei servizi di giustizia” e che, quindi, rientra nella sua competenza istituzionale la potestà di predeterminare e di fornire gli “arredamenti” necessari al funzionamento dell'apparato giudiziario, è altrettanto innegabile che il “crocifisso” non è un “oggetto di arredamento” necessario al funzionamento della Giustizia -come ad esempio un tavolo, una sedia o un computer- bensì un simbolo ideologico, la cui funzione esclusiva è quella di connotare di “cristianità” le aule di giustizia e, quindi, l'attività giurisdizionale esercitata dai Giudici.
Orbene, se si considera che i Giudici godono della prerogativa dell'indipendenza (artt. 101, 102 e 104) e dell'imparzialità (art. 111), è giocoforza ritenere che l'imposizione da parte del Ministro di Giustizia di un simbolo ideologico “partigiano”, qual'è innegabilmente il crocifisso, leda non soltanto il principio supremo di laicità e i diritti primari del dr. Tosti e dei suoi difensori alla non discriminazione ed alla libertà religiosa, ma anche tutte queste prerogative costituzionali della Magistratura.
Tutto questo è più che sufficiente per decretare la palese “illegittimità” della circolare del Ministro di Giustizia Rocco n. 2134/1867 del 29.5.1926 per violazione degli art. 2, 3, 7, 8, 19, 97, 101, 102, 104, 111 e 113 della Costituzione e degli artt. 6, 9, 13, 14 e 17 della citata Convenzione (una vera “strage”).
Questa illegittimità della circolare, peraltro, riverbera i suoi effetti sulla pienezza della funzione giurisdizionale della Cassazione civile a Sezioni Unite, menomandola al punto tale da impedirle di celebrare il processo a causa del legittimo rifiuto dei difensori del dr. Tosti di presenziare al dibattimento e difenderlo: si ritiene, dunque, che ricorra un evidente caso di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ex art. 37 L. n. 87/1953.
Tale norma sancisce infatti che “Il conflitto tra poteri dello Stato è risolto dalla Corte costituzionale se insorge tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono e per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali”.
XI. Nel caso di specie ricorre, innanzitutto, il requisito soggettivo, in quanto la Corte di Cassazione gode di assoluta indipendenza ed autonomia nell'ambito del più vasto “potere giurisdizionale” cui appartiene (si richiama Corte Cost., ord. 22/1975: “i singoli organi giurisdizionali, esplicando le loro funzioni in situazioni di piena indipendenza, costituzionalmente garantita, sono da considerare legittimati -attivamente e passivamente- prescindendo dalla proponibilità di gravami predisposti a tutela di interessi diversi”).
XII. Non sussiste, poi, l'ipotesi che “altro organo, all'interno del potere giurisdizionale, sia abilitato ad intervenire -d'ufficio o dietro sollecitazione del potere controinteressato- rimuovendo o provocando la rimozione dell'atto o del comportamento che si assumono lesivi” (Corte Cost., ord. 228/75).
XIII. Dal punto di vista oggettivo, poi, il conflitto di attribuzione che si caldeggia concerne sicuramente un atto amministrativo di natura regolamentare (circolare Min. Giust. n. 2134/1867 del 29.5.1926 o, comunque, un comportamento di “rifiuto” di rimozione dei crocifissi da tutte le aule giudiziarie italiane), della cui “illegittimità”, come visto, non è dato dubitare.
XIV. Infine, la violazione della sfera di attribuzione delle SS.UU. della Corte di Cassazione trova il suo fondamento negli artt. 101 e 102 della Costituzione, perché il diniego di rimozione generalizzata dei crocifissi dalle aule giudiziarie da parte del Ministro di Giustizia, implicando la violazione del diritto costituzionale del ricorrente all'equo processo da parte di un giudice imparziale (art. 111 Cost. e 6 Conv.), nonché del diritto costituzionale all'eguaglianza (art. 3 Cost. e 14 Conv.) e del diritto costituzionale alla libertà religiosa (art. 19 Cost. e 9 Conv.), sia del ricorrente che dei suoi difensori, determina un legittimo impedimento dei difensori di fiducia a presenziare e, quindi, l'impossibilità di celebrare legittimamente il grado di giudizio dinanzi alla cassazione, con conseguente menomazione della pienezza della funzione giurisdizionale spettante alla Corte Suprema (la stessa cosa si verificherebbe se le barriere architettoniche esistenti nel “Palazzaccio” impedissero ai legali portatori di handicap di accedervi con dignità per esercitare il loro ministero).
Si rappresenta che queste motivazioni risultano oggi confortate, oltre che dalla Cassazione penale nella citata sentenza n. 4273/2000, “anche” dal Consiglio Superiore della Magistratura, nella “vecchia” formazione. In particolare, nell’ordinanza n. 12/2006, depositata il 23.11.2006, il CSM ha affermato che la pretesa del dr. Tosti (come giudice) di ottenere la rimozione dei crocifissi dalle aule giudiziarie è pienamente fondata, dal momento che la circolare fascista del Ministro Rocco deve ritenersi tacitamente abrogata (sin dal 1948) per incompatibilità con la Costituzione repubblicana.
Sottolinea innanzitutto il CSM che la circolare in questione è “un atto amministrativo privo di fondamento normativo e, quindi, contrastante con il principio di legalità dell'azione amministrativa, desumibile dagli articoli 97 e 113 della Costituzione, dal quale deriva che ogni atto amministrativo deve essere espressione di un potere riconosciuto all'Amministrazione da una norma”, tant'è, soggiunge il CSM, che per poter esporre i simboli nazionali negli uffici pubblici il legislatore ha dovuto emanare ben due leggi.
In secondo luogo, poi, il CSM evidenzia -in sintonia con la Cassazione penale- che la circolare fascista “appare in contrasto con il principio costituzionale di laicità dello Stato e con la garanzia della libertà di coscienza e di religione, essendo pacifico (in tal senso Cassazione, Sezione Unite, 18.11.1997, n. 11432 e Sez. Disciplinare 15.9.2004, Sansa) che nessun provvedimento amministrativo può limitare diritti fondamentali di libertà, al di fuori degli spazi eventualmente consentiti da una legge ordinaria conforme a costituzione. Ne consegue, da un lato, che in materia religiosa lo Stato deve essere equidistante, imparziale e neutrale e, dall'altro, che l'ordine delle questioni religiose e quello delle questioni civili debbono rimanere separati, con la conseguenza che in nessun caso il compimento di atti appartenenti alla sfera della religione possa essere oggetto di prescrizioni obbligatorie o che si ricorra ad obbligazioni di ordine religioso per rafforzare l'efficacia di precetti statali: la religione e gli obblighi morali che ne derivano non possono essere imposti come mezzo al fine dello Stato. La libertà di coscienza (espressamente riconosciuta anche dall'art. 9 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e dall'art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea) e la libertà di religione debbono essere lette come affermazione non solo positiva, di tutela delle convinzioni o della fede professata, ma anche in senso negativo, come tutela di chi rifiuti di avere una fede e, pertanto, deve essere garantita sia ai credenti che ai non credenti, siano essi atei o agnostici. Dal carattere “fondante” della libertà di coscienza deriva anche che nelle valutazioni costituzionali relative ai profili dell'eguaglianza in materia religiosa il dato quantitativo, l'adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione, non può essere rilevante. Alla luce dei rilievi ora svolti appare convincente la tesi dell'incolpato secondo la quale l'esposizione del crocifisso nelle aule di giustizia, in funzione solenne di “ammonimento di verità e giustizia”, costituisce un'utilizzazione di un simbolo religioso come mezzo per il perseguimento di finalità dello Stato. Del pari persuasiva sembra l'affermazione che l'indicazione di un fondamento religioso dei doveri di verità e giustizia, ai quali i cittadini sono tenuti, può provocare nei non credenti “turbamenti, casi di coscienza, conflitti di lealtà tra doveri del cittadino e fedeltà alle proprie convinzioni” e pertanto può ledere la libertà di coscienza e di religione.” (si raccomanda la sollecita proposizione di un’azione disciplinare contro i membri del CSM, avendo essi confermato la tesi giuridica sostenuta dal dr. Tosti, e cioè che l’esposizione del crocifisso nuoce all’imparzialità dei giudici: n.d.r.).
Il CSM, infine, ha cura di “bocciare” le sentenze del TAR del Veneto e del Consiglio di Stato che hanno legittimato l'esposizione dei crocifissi nelle scuole per la loro supposta valenza “culturale”: “anche a poter condividere la tesi del significato meramente culturale del crocifisso -chiarisce il CSM- il problema della libertà di coscienza e del pluralismo si sposterebbe dal terreno esclusivamente religioso a quello appunto culturale, ma non sarebbe risolto, in quanto dai principi costituzionali in precedenza individuati deriva che l'amministrazione pubblica non può scegliere di privilegiare un aspetto della tradizione e della cultura nazionale, sia pure largamente maggioritaria, a discapito di altri minoritari, in contrasto con il progetto costituzionale di una società “in cui hanno da convivere fedi, culture e tradizioni diverse” (Corte Cost., n. 440 del 1995)”.
In buona sostanza, dunque, lo stesso CSM ha ammesso che l'esposizione dei soli crocifissi nelle aule giudiziarie e, in genere, nei pubblici uffici, calpesta il principio supremo di laicità delineato dalla Costituzione italiana e, quindi, l'obbligo costituzionale dei giudici di essere imparziali, neutrali ed equidistanti.
Calpesta, di conseguenza, il corrispondente diritto dei cittadini di essere giudicati da giudici imparziali e, infine, il diritto di libertà religiosa e di eguaglianza e non discriminazione dei cittadini atei, agnostici o non cattolici.
XV. Si segnala alle Sezioni Unite civili la rilevanza delle motivazioni dell'ordinanza n. 41.571 del 18.11.2005 della Corte di Cassazione, III^ Sezione penale, con la quale è stata dichiarata inammissibile l'istanza di rimessione ex art. 46 c.p.p., che fu presentata dall'imputato Adel Smith per motivazioni identiche a quelle formulate dal dr. Tosti.
La Cassazione, in particolare, pur avendo giustamente affermato che il ricorso alla legittima suspicione da parte dell'imputato Smith fosse erroneo, dal momento che i crocifissi sono esposti, in virtù della circolare fascista, in tutti gli uffici giudiziari italiani, e non soltanto nel Tribunale di Verona, ha tuttavia fatto due importantissime affermazioni, evidenziate già dai primi commentatori:
1) la prima è che la rimozione dei crocifissi dalle aule giudiziarie -e cioè il ripristino dell'osservanza del principio di laicità caldeggiato dall'imputato Smith- può essere disposta solo dal Ministro di Giustizia, in quanto “è da escludere che un giudice, di qualsivoglia ordine e grado, possa disapplicare la circolare ministeriale Rocco”;
2) la seconda affermazione è che, comunque, l'imputato Smith “ha sollevato una questione importante”.
La Corte di Cassazione, dunque, ha ammesso in modo esplicito che l'osservanza del principio di laicità -durante la celebrazione dei processi- incida negativamente sull'obbligo di imparzialità del giudice sancito dall'art. 111 della Costituzione, affermando però che tale problematica può essere risolta solo attraverso la fattiva collaborazione del Ministro di Giustizia, dal momento che “il compito di disapplicare una circolare amministrativa, che attiene a una materia qual'è quella della manutenzione degli uffici giudiziari e dei loro arredi, è assolutamente estranea alle attribuzioni giurisdizionali della magistratura”. Il che conforta la necessità di ricorrere alla via suggerita dal ricorrente, cioè il conflitto di attribuzione nei confronti del Ministro.
Concludendo su questa “questione” preliminare, il ricorrente Tosti Luigi
C H I E D E
che le Sezioni Uniti civili, preso sin d’ora atto della decisione del dr. Tosti di rifiutarsi di farsi processare, in questo grado di giudizio, da giudici visibilmente “PARZIALI”, cioè che lo giudicano in aule connotate da Cristianità cattolica, e, dunque, della necessità di revocare la nomina dei difensori di fiducia o, comunque, di vietare agli stessi di rappresentarlo e difenderlo all’udienza dibattimentale che sarà tenuta dinanzi alle stesse, sino a che non verranno rimossi tutti i crocifissi da tutte le aule italiane o, in alternativa, sino a che non verranno esposti a fianco del crocifisso i suoi e gli altrui simboli religiosi, vogliano attivarsi presso il Ministro di Giustizia per ottenerne la rimozione, o l’aggiunta di tutti gli altri simboli, se del caso rinviando il dibattimento ad altra prossima udienza e, in caso di esito negativo, vogliano sollevare conflitto di attribuzione nei confronti del Ministro di Giustizia dinanzi alla Corte Costituzionale ex artt. 134 Cost. e 37 L. 11.3.1953 n. 87, affinché la Consulta dichiari che il rifiuto di rimozione dei crocifissi è illegittimo, per violazione degli art. 2, 3, 7, 8, 19, 97, 101, 102, 104 e 111 e 113 della Costituzione e 6, 9, 13, 14 e 17 della Convenzione e determina, dunque, una illegittima menomazione della pienezza delle funzioni giurisdizionali spettanti alla Corte di Cassazione ex artt.101 e 102 Costituzione.
XVI. Corre l'obbligo di rappresentare alla Corte che analogo conflitto è stato sollevato, nel dicembre 2005, dal dr. Tosti nella sua qualità di Giudice monocratico del Tribunale di Camerino.
Ebbene, la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 127/2006 lo ha dichiarato inammissibile (senza entrare dunque nel merito) perché “il giudice remittente, che per sua stessa ammissione si era astenuto dalle funzioni giurisdizionali dal 9.5.2005, non era attualmente investito di un processo, in relazione al quale soltanto i giudici si configurano come organi competenti a dichiarare la volontà del potere cui appartengono”, credendo peraltro di non ravvisare, nella complessiva prospettazione del ricorso, una “menomazione delle attribuzioni costituzionalmente garantite agli appartenenti all'ordine giudiziario”, bensì “solo il personale disagio di un «lavoratore dipendente del Ministro di Giustizia» per lo stato dell'ambiente nel quale deve svolgere la sua attività.”
Pur essendo irrilevante ai fini della fondatezza del conflitto di attribuzione, al ricorrente corre l’obbligo di contestare l’appunto di aver voluto esternare alla Corte Costituzionale “solo il personale disagio di un «lavoratore dipendente del Ministro di Giustizia» per lo stato dell'ambiente nel quale deve svolgere la sua attività”: in realtà, il “personale disagio” che il dr. Tosti ha inteso manifestare alla Corte col suo ricorso è lo stesso identico “disagio personale” che indusse, nel 2002, il Presidente della Corte Costituzionale prof. Cesare Ruperto (cattolico, ma onesto sino al punto di rinunciare ai suoi “privilegi”) a rimuovere il crocifisso dall’aula delle udienze della Corte stessa.
Per essere ancora più espliciti, il ricorrente chiarisce che il suo “personale disagio” era ed è il “disagio” di un pubblico funzionario della Repubblica che, avendo giurato fedeltà alla Costituzione ed essendo informato al rispetto del principio supremo di laicità, delineato anch’esso dalla Costituzione Repubblicana, nonché al rispetto dei diritti di eguaglianza e di libertà religiosa dei cittadini italiani, anch’essi garantiti e tutelati dalla Costituzione, si è rifiutato e si rifiuta di pronarsi servilmente alla Chiesa ed al Papa e, dunque, di violare i propri obblighi costituzionali e di calpestare la Costituzione, il principio supremo di laicità e tutti i diritti di rango costituzionale dei cittadini italiani.
Il ricorrente, dunque, non pensa di meritare “appunti” per le motivazioni che sono a base del suo “personale disagio”, salvo che qualcuno gli voglia grottescamente imputare l’errore di aver prospettato tutte queste questioni di rango costituzionale in una sede “inappropriata”, cioè dinanzi......... alla Corte Costituzionale!
In ogni caso si rileva che le considerazioni esposte dalla Consulta non valgono nel caso di specie: per un verso, infatti, le SS.UU. della Corte di Cassazione civile sono nel pieno delle loro funzioni giurisdizionali; per altro verso, poi, il conflitto di attribuzione viene oggi prospettato con riferimento agli artt. 101 e 102 Cost. ed esso riguarda una “menomazione delle attribuzioni giurisdizionali” che -si badi bene- è esattamente identica a quella ritenuta ammissibile dalla Corte Costituzionale con l'ord. n. 228 del 1975, di cui si riporta la massima:
“Il rifiuto opposto al Tribunale di Torino dalla Commissione d'inchiesta in ordine alla richiesta di documenti, ritenuti necessari ai fini probatori, concreta una illegittima menomazione delle pienezza della funzione istituzionalmente spettante al potere giurisdizionale ex artt. 101 e 102, esplicata dal Tribunale medesimo, per la limitazione che ne risulterebbe all'accertamento dei fatti ed alle conseguenti valutazioni di sua competenza”.
Orbene, se si ha cura di parafrasare questa massima, adattandola al presente caso, si dovrà ineluttabilmente affermare che:
“il rifiuto, opposto alle SS.UU. civili della Corte di Cassazione dal Ministro di Giustizia in ordine alla richiesta di rimozione dei crocifissi, ritenuta necessaria ai fini del rispetto dei diritti costituzionali del ricorrente e dei suoi difensori all'equo processo, all'eguaglianza ed alla libertà religiosa, concretizza una illegittima menomazione delle pienezza della funzione istituzionalmente spettante al potere giurisdizionale ex artt. 101 e 102, esplicata dalla Corte medesima, per la limitazione che ne risulterebbe alla possibilità di celebrare un valido processo a carico del ricorrente, legittimamente non rappresentato e difeso dai suoi difensori di fiducia a causa dell'esposizione obbligatoria dei crocifissi nelle aule giudiziarie”.
P. Q. M.
si rassegnano le seguenti
CONCLUSIONI
Piaccia all’Ecc.me SS.UU. della Corte di Cassazione civile, in accoglimento del ricorso, annullare la sentenza di condanna, mandando assolto l’incolpato perché il fatto non costituisce illecito disciplinare. In subordine voglia annullare la sentenza con rinvio alla sezione Disciplinare del CSM in diversa composizione per il nuovo giudizio. Vinte le spese.
5 febbraio 2008
Luigi Tosti
Avv. FABIO PIERDOMINICI
Avv. DARIO VISCONTI

ATTO DI NOMINA A DIFENSORI EX ART. 613 C.P.P.
Io sottoscritto TOSTI LUIGI, res. a Rimini, Via Bastioni Orientali n. 38, nomino miei difensori di fiducia, anche per la presentazione di autonomi ricorsi:
1°) l’ Avv. Pierdominici Fabio del foro di Camerino, Via Farnese n. 75, 62032 CAMERINO, tel. 0737 - 630126
2°) l’Avv. Visconti Dario del foro dell’Aquila, Via XX Settembre n. 19, 67100 L’AQUILA, tel. 0862 - 419442
per la rappresentanza ed assistenza nel presente giudizio di cassazione avverso la sentenza della Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura n. 106/2007, pronunciata il 7.12.2007 e depositata il 13.12.2007, relativa al proc. disc. N. 37/2007 R.G., conferendo loro ogni più ampio potere, anche per le memorie, per i motivi aggiunti e per la rappresentanza davanti alla Corte di Cassazione.
Eleggo domicilio in (...) R.C.

Luigi Tosti

Avv. Fabio Pierdominici
Avv. Dario Visconti


Nella foto, il giudice Luigi Tosti (foto Campanella Lasca, no copyright)

Interviste, conferenze e altro tel. 3393188116
Fonte:
http://nochiesa.blogspot.com
Diffusione: Axteismo Press l'Agenzia degli Axtei, Atei e Laici
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